C’è un sonetto di Jacopo da Lentini, il padre di tutti i sonetti, che è vecchio quasi otto secoli, e fa ancora (sempre più) rodere d’invidia. Fin dall’attacco, in genere, viene sbrigativamente liquidato, archiviato al più fra i retaggi del bigottismo medievale:

Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.



Che Jacopo voglia servire Dio, può anche starci: è un uomo del Duecento, malato di fissazioni religiose. Altrettanto scontato risulta il motivo di tale servizio: il desiderio di andare in paradiso. Eccola, la creduloneria che ci aspettiamo. Ma che idea ha, lui, del paradiso? 

Qui cominciano le sorprese: non certo un concetto teologico né delle nuvole da pubblicità. Innanzitutto è un posto di cui ha sentito parlare (“aggio audito dire”): la gente del suo tempo comunicava di bocca in bocca che alla fine non c’era una fine, ma un destino eterno. E come lo descriveva? Come un luogo in cui si mantiene “sollazzo, gioco e riso”: un luogo in cui la felicità “si manten”. No, perché qui, sulla terra, il problema è che il divertimento, il gioco, il riso saranno anche belli, ma proprio non si mantengono, non tengono, non durano, e il sabato sera non arriva al lunedì mattina. Possibile che vada a finire tutto nel niente? 



Quell’epoca non si arrendeva: nel Duecento si sentiva parlare di una prospettiva per cui c’è infinitamente di più che ridere e giocare, eppure tutto, anche i giochi e le risate, viene salvato, per sempre. A chi viene al mondo oggi, invece, capita la stessa fortuna? viene disegnato lo stesso orizzonte? Scusate il crollo dalle stelle alle stalle, ma quest’anno il singolo di Emma Marrone grida nel ritornello: “Il paradiso non esiste, esistono solo le mie braccia in questo piccolo mondo di oggi”. E dopo essersene uscita con quello che non riesce a produrre un ossimoro ma solo un finale a casaccio (“questo piccolo mondo, un mondo infinito”), la nostra filosofa insiste a ripetere che “il paradiso non esiste, lo abbiamo lasciato a tutti gli altri: mi basta il piccolo mondo di oggi, mi basta il piccolo mondo”.  



Che tristezza! Se un uomo del Tremila paragonasse questi due testi, non avrebbe dubbi su quale sia stata l’epoca buia tra le due. Come può bastarti “il piccolo mondo di oggi”? come possono bastarti le tue piccole “braccia”? come possono bastarti i giochetti, le risatine, i divertimenti? che schifo di prospettiva offriamo a chi amiamo? davvero “solo le mie braccia”? Il nostro è un tempo che non sa che farsene del paradiso, e non perché sia meno religioso e più concreto, ma solo perché si accontenta delle cose piccole. Oltre al gioco (ludus) che un giorno ci illude (in-lusus) e un altro ci delude (de-lusus), non c’è altro: e alla fine, una manciata di polvere. È ovvio, quello che ora ti piace, domani si perde. “Non ci resta che piangere”: anzi, ridiamoci su, cadendo nel burrone all together, con le cuffiette nelle orecchie.

Abbiamo perso il paradiso: guadagnando almeno la terra? Sarebbe almeno un buon contrappasso: ai medievali il cielo, a noi la terra. Così, del resto, insegnano i libri e gli insegnanti. Ma che ne sanno? l’hanno letta la seconda strofa? 

 

Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

 

Va bene il paradiso, ma non toglietemi lei: senza di lei non si può godere. Alla faccia di tutti i nostri pregiudizi, Jacopo da Lentini, da buon medievale, non si sogna nemmeno di escludere la terra per esaltare il cielo: per lui non c’è donna senza paradiso e non c’è paradiso senza donna. Perché il cielo non inghiotte la terra, ma la salva dal suo inghiottimento, e chi ama Dio non trascura l’uomo: anzi, quanto più ama qualcuno, tanto più ha bisogno che Dio lo salvi. Che senso avrebbe star bene per due ore o per due mesi o per due anni? Abbiamo bisogno, per godere davvero, del paradiso: il posto “dove gioir s’insempra”, come lo chiama Dante, inventandosi al solito un verbo che non potrebbe avere sostituti: insemprarsi, altro che le braccine delle fidanzatina del momento! Non sappiamo che farcene, di questo “nichilismo gaio” del “mangia, ché devi essere mangiato”, di questo dilagante “chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza” 

Col sospetto di finire mangiato dai vermi, come fate a essere lieti? Contenti forse sì, ma la contentezza è per sua natura, etimologicamente, contenuta: una piccola cosa, come le piccole braccia del piccolo mondo. E non c’è, in Jacopo, nessuna scissione fra effimero ed eterno:

 

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.

 

Non vuole imboscarsi con lei tra le frasche del paradiso, ma lo consola già adesso pensare che la vedrà per sempre, nella gloria. A questo punto noi moderni, che ce ne infischiamo di queste chiacchiere, potremmo anche scrivere il nostro bel controsonetto, che durerebbe non ottocento anni ma il tempo di qualche likes: “Io me ne frego di Dio, il paradiso non esiste: l’unica cosa che ho nel cuore, in questo mondo noioso e stressante, è qualche divertimento ogni tanto, un bel viaggetto che, si sa, poi finisce e purtroppo si torna a lavorare. Lasciatemi qui con chi capita, così mi distraggo un po’ e non ci penso. E che ci importa della gloria e del suo sguardo? Se mi togliete pure i peccati (che poi chi l’ha detto che sono peccati?), la vita sarebbe una fregatura”. 

Complimenti: aver perso già Dio con l’angoscia di poter perdere anche Satana. Rimanere all’asciutto, senza paradiso e senza lei. A meno che non ci capiti di incrociare qualche “bel viso”, e di accorgerci, finalmente, che amare significa desiderare di insemprarsi. Non perderla mai: quello che un tempo, prima di Emma e del nostro piccolo mondo marrone, dipingevano d’oro e chiamavano paradiso.