Le presidenziali americane si sono concluse in un modo che a pochi osservatori assennati potrà sembrare imprevedibile. Hillary Clinton, nel voto popolare, ha ottenuto mezzo punto percentuale in più, rispetto al magnate Trump. Se questi 700mila voti di scarto si fossero tradotti anche in una vittoria nella ripartizione dei grandi elettori, in ciascuno Stato, sarebbe comunque stato un vistoso arretramento rispetto ai trionfalistici sondaggi di poche settimane fa. La Clinton è sempre stata presentata dalle indagini demoscopiche come la predestinata alla vittoria, la lepre in fuga. Una lepre che a pochi giorni dal voto sembrava essersi fatta chimera, visto che veniva accreditata con forchette di scarto tra i sei e gli otto punti percentuali, a danno del rivale repubblicano. 



Questo fraintendimento era vistosamente nell’aria: la stampa, quotidiana e periodica, ancora incisiva nell’opinione pubblica americana, la supportava; molti plenipotenziari della old e della new economy si sbracciavano per finanziarne la campagna elettorale; la vasta rete statunitense dell’associazionismo solidale americano la innalzava ad eroina, insieme al plebiscito di Hollywood e dei palchi di musica rock. 



Solo che, lo dimostra la vittoria di Trump, il voto lo fanno le persone fisiche, non le persone giuridiche. Se le lobbies, anche quelle più avvertite e lungimiranti, possono modellarlo, guidarlo, tentare di egemonizzarlo, arriva il momento in cui il circuito associativo, delle fondazioni e delle riviste, non basta più. Votano le persone, non le appartenenze. Se prevale il voto per “appartenenze”, del resto, non è mai un buon segno: vuol dire che l’organizzazione sociale si è così ramificata e stratificata, che non c’è bisogno di andare ai seggi. 

Trump, sorprendentemente, ha vinto anche contro il suo partito, che per due terzi della campagna elettorale aveva annunciato apertamente di boicottarlo. Il partito repubblicano è un partito in crisi, spesso incapace di rinnovarsi, ma è ancora uno dei più forti canali della rappresentanza politica americana. Tutto l’establishment dell’Elefantino, nelle ultime settimane, era ritornato all’ovile del magnate chiassoso che si era preso la nomination repubblicana a suon di sferzate contro i maggiorenti del partito. Trump, in modo persino poco studiato, persino improvvisato, stava rimontando non solo nel voto generico (dove la forbice verso i democratici s’era ridotta di giorno in giorno, di sparata in sparata), ma soprattutto negli Swinging States, negli Stati sul bordo, pronti a scivolare nelle solide braccia democratiche o nelle fratricide braccia repubblicane, nello spazio di poche ore. 



In modo meno visibile che ai tempi di Bush, ma ancora molto forte e per molti profili sorprendente, il voto d’opinione etico-religiosa ha segnato punti su punti a favore di Trump. Nella percezione della società americana, Obama è stato un presidente fortemente influenzato dall’opinione pubblica cattolica o, meglio, dai quadri dirigenziali del suo associazionismo progressista. 

E anche questo spinge a una riflessione: i fedeli parrocchiali non sono i dirigenti di una Ong, né possono essere trattati come tali. La fede e il solidarismo, per quanto così spesso sinergici, non sono la stessa cosa. Il voto cattolico americano non è per forza quello della filantropia esemplare, degli intellettuali assurti ad alte cariche di nomina presidenziale. È un voto più quotidiano, più “naturale”, più naturalmente parte della spina dorsale della società e dell’economia americana. 

Non sorprende, per altro verso, che il ceto intellettuale abbia fatto dichiarazioni liberal, senza trainare grandi voti con sé e spesso spaccandosi al proprio interno. La candidatura verde di Jill Stein in alcuni sondaggi era data intorno al 5 per cento. Espressione della società americana che ha trasformato i libri della Klein in bestseller e i concerti dei Rage Against the Machine, tre lustri addietro, in lezioni di sociologia, conflitto e insurrezione urbana. Nell’urna ha preso meno dell’1 per cento. In anni difficili, di allarmismi sociali ed economie instabili (quella americana è ancora piuttosto solida, ma subisce cicli oscillatori più incerti che nel passato), l’opinione pubblica dei buoni, dei migliori, degli edulcorati, va in sofferenza, si frantuma. Per riaggregarla serve slancio, coscienza, calore, capacità di innovazione. Doti non esattamente all’ordine del giorno nella campagna elettorale della Clinton. 

Trump è andato bene tra i congregazionalisti, i pentecostali, i riformati più rigidi e meno vicini agli omologhi europei. È nell’insediamento tradizionale del cristianesimo repubblicano che questi voti hanno la loro storia: un sentire fermamente antiabortista, talvolta antievoluzionista, ai confini del nazionalismo. Curiosamente, o meno, questo elettorato non sempre è proibizionista in campo economico; vuole anzi dosi massicce di abolizionismo fiscale e non ha idee univoche sul protezionismo. I capofila di queste istanze, negli Stati Uniti, sono stati i Tea Parties e non è scoperta di questi giorni che in quei movimenti, spontanei quanto completamente disarticolati, vi fossero in posizioni quasi “carismatiche” anche ferventi religiosi ed eredi dei valori più tradizionalistici della bandiera a stelle e strisce. 

Non hanno, però, del tutto disprezzato Trump né gli ispanici, né gli afroamericani. I primi hanno confermato le loro radicate simpatie verso il partito democratico, ma nemmeno lì i democratici sono riusciti a fare il pienone, nonostante la propaganda antimessicana di Trump avesse potuto suggerire il contrario. La comunità black, di ancor più solido ancoraggio nella sinistra dei democratici, pugnace nelle battaglie civili, coesa al proprio interno e simbolicamente attratta dalla presidenza Obama, non ha votato la Clinton all’unanimità. Che piaccia o meno, le violenze razziali degli ultimi mesi hanno avuto una forte carica antigovernativa — non solo sul piano nazionale, ma anche negli Stati federali governati dai democratici. Il fatto che le violenze razziali non abbiano occupato che poche righe, nelle cronache elettorali che giungevano dagli States, la dice lunga su come poteva essersi sentita la comunità afroamericana, rispetto a quei democratici che un tempo erano i suoi esclusivi paladini.

Se Trump vorrà essere un presidente di livello — ma non giureremmo che abbia questa intenzione — dovrà rendersi conto proprio di questo. In campagna elettorale poteva giocare ad essere Bad Donald, portato in spalla dalle cattive compagnie. Ora dovrà rispondere a quella parte fattiva e impegnata della società americana che ha votato per lui sapendo che non sarebbe stato il diavolo in persona, ma un politico meno schiacciato dalle sirene corporative. Che ce la faccia o no, non è affare che riguarda solo gli Stati Uniti.