Fedeli in ginocchio e in preghiera davanti alla basilica di san Benedetto, nella piazza di Norcia. Chi di noi non ha sussultato di fronte a questa immagine commovente e intensa, trasmessa più volte dai media nei drammatici giorni del terremoto che ha colpito Umbria e Marche?
Nell’immagine si vede la facciata della chiesa, ancora in piedi, mentre dal rosone filtra il sole che da oriente illumina, in controluce, la scena. Dietro la facciata, tutto è crollato.
Fra le persone inginocchiate si trovano donne, qualche frate, alcune monache e perfino un’anziana in carrozzella. Viene in mente la paradossale espressione di san Paolo: “ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Corinzi 1, 25), frase detta non certo per umiliare le stupende potenzialità della creatività umana ma per ridimensionare ogni superbo programma di potere.
E così ci si interroga: come queste persone, colpite da un terribile e distruttivo cataclisma, possono essere, nella loro apparente impotenza e fragilità, protagoniste della storia e perciò ricostruttori di rovine? Lo sono sul piano razionale o solo nell’atmosfera emotiva di un sentimento passeggero, o di una vuota retorica?
Ora et labora (prega e lavora). Da subito gli abitanti di Norcia ci hanno testimoniato di non aver dimenticato l’essenza dell’insegnamento offerto al mondo dal loro concittadino più celebre, san Benedetto (ca. 480- 547), un uomo che, da solo, ha cambiato il corso della storia.
Come lui, questi fedeli inginocchiati sono artefici di ricostruzione e, insieme a loro, gli uomini e le donne che non si vedono nell’immagine ma che ci sono, perché stanno lavorando fra le macerie per soccorrere, per aiutare, per riprendere a vivere. Da subito. Con una dignità che sconcerta, se confrontata con le lamentele e le polemiche di tanta mediocrità spesso trasmessa dagli stessi schermi televisivi, in altri contesti.
Qualcuno ha detto che questi luoghi sono diventati “il cuore dell’Italia”. È vero. Ma forse lo sono sempre stati e non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa, perché Norcia è stata letteralmente la culla del monachesimo occidentale.
Alcuni, molti ne sono consapevoli, ma tanti altri l’hanno dimenticato e così Norcia — pur nella sua indubbia bellezza storico-artistica, apprezzata da turisti intelligenti — è forse scivolata nella “periferia” dell’Europa, almeno nella comune percezione delle origini e delle identità.
Norcia è considerata “periferia”, ad esempio, dal miope e ottuso localismo di chi non vuole più nemmeno l’Europa, da chi non ne riconosce tutte le radici storiche, da chi irride il monachesimo anche con la banalità di romanzi in bella mostra sulle librerie dei supermercati: L’abbazia dei cento inganni o delitti o peccati… e cose del genere.
Ma Norcia non è periferia dell’Europa, se consideriamo la storia che ha generato questo continente, come papa Francesco ha stupendamente ricordato nel discorso in occasione del Premio Carlo Magno: l’Europa è nata anche dalle radici cristiane, delle quali Benedetto da Norcia è stato protagonista supremo.
Nel 2013, proprio su questo giornale, ho già scritto di san Benedetto e a quell’articolo rimando per ulteriori riferimenti biografici su di lui.
Non pensavo certo allora, riferendomi a Benedetto come “costruttore in mezzo alle rovine”, di dover poi dolorosamente assistere alla scena della sua così bella patria ferita da un terremoto. Eppure c’è una misteriosa analogia fra la storia di quei tempi e il compito che oggi ci attende: ricostruire.
Per Benedetto e per i suoi monaci si trattava di ricostruire quasi tutto dopo la decadenza della società romana e le invasioni germaniche. Nei secoli VII e VIII, i monasteri benedettini raggiungono luoghi lontani da Norcia e dove arrivano i monaci, la vita rinasce.
I monaci salvano la cultura antica copiando i codici dei classici, insegnano nuove tecniche agricole, diffondono il vangelo, propongono un microcosmo di pace in mezzo alle guerre.
Fra IX e XII secolo, in piena rinascita socio-culturale-economica, la riforma monastica di Cluny ricorda la distinzione fra potere laico e religioso all’interno di quel vasto programma innovativo che si usava definire “gregoriano”, ma che ora gli storici preferiscono — giustamente — attribuire a diversi e più ampi contesti. Nel secolo dei trovatori, Bernardo di Chiaravalle scrive i suoi Sermoni sul Cantico dei Cantici e contribuisce, da monaco, a diffondere il lessico dell’eros in Occidente e a riconoscere la dignità dell’amore fra uomo e donna.
Basterebbero solo questi cenni per riscoprire l’importanza di ciò che da Norcia è nato e l’assoluta necessità di ricostruire, come è avvenuto ad Assisi e altrove.
Ed è necessario ricostruire sia per la memoria del passato, sia per amore alle persone che fino a ieri hanno vissuto e custodito anche per noi questi luoghi, per quelle persone che con dignità e mitezza abbiamo visto pregare e lavorare nella piazza di Norcia e negli altri luoghi colpiti da questa misteriosa e dolorosa prova.