Uno dei vantaggi della copia digitale di un articolo del New York Times, come quello di domenica scorsa, 19 novembre 2016, sulla presenza del prossimo vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, fra il pubblico di “Hamilton”, il popolarissimo Broadway musicale a New York, è che ci sono anche gli inserti video. 



In questa breve registrazione si vede l’attore afro-americano Brandon Victor Dixon, il cui ruolo è quello del vicepresidente Aaron Burr, uno dei bianchissimi fondatori della patria, il quale alla fine della performance chiede al futuro e vero vicepresidente di rimanere ed ascoltare le parole che lui leggerà dopo aver tratto fuori da una tasca del suo costume settecentesco un foglio.



Un altro ancor più breve video ci mostra Pence quando entra in teatro e si ritrova fra gli applausi e anche i fischi degli spettatori. Alla fine il vice rimarrà poi fuori dalla vista del pubblico per ascoltare la lettura. Non lo vediamo più in alcun video, probabilmente blindato e corazzato dai suoi body guards. Solo un sorriso sarà il suo commento, ci dicono. Mentre su Twitter si scatenerà Trump definendo il gesto degli attori “harassment” e maleducazione, ed esigendo le loro scuse.

Sono tornati gli anni dell’attivismo individuale e di gruppo, delle dimostrazioni di massa (marcia su Washington delle donne in preparazione per gennaio, una protesta civile che non può non farci ricordare quella storica di Martin Luther King, Jr., le cui parole risuonano nell’eco del tempo: “We have a dream…” ma ci si domanda ora quali e come saranno le parole di quest’altra marcia su Washington, in questa nuova epoca così risentita, perché di sognare non sembra che nessuno ne abbia più voglia). 



Questa nazione si risveglia? Si ribella? Qualcuno dirà di sì, ma solo nella East e nella West Coast, qualcun altro aggiungerà, perché metà della popolazione ha votato Trump. Ci scordiamo forse che la metà più vocale e più agguerrita si è sempre manifestata sulle coste dei due oceani, in questo paese sterminato in cui gli stati che la comprendono non sono solo tanti e disseminati dai chilometri ma sono come piccole nazioni separate, e sono così da quando si cominciò a scrivere la storia degli Stati che si vollero Uniti. Non sorprende, chi conosce questa nazione dell’America del Nord, capire le difficoltà dell’Europa che si vuole Unione oggi.

Ma è il grande teatro statunitense ormai lo scenario preferito dei media globali e del suo pubblico. Il teatro dentro il teatro dello scorso venerdì dopo la conclusione dell’operetta è simbolicamente interessante perché la novità di questo musical è che gli attori che rappresentano i padri fondatori (Alexander Hamilton, George Washington, Thomas Jefferson e altri) sono neri o ispanici.

Il tema principale è celebrare l’immigrazione. Per cui un teatro politico, o civile come si tende a dire in Italia, non sorprende che voglia dichiararsi politicamente di fronte ad un rappresentante del prossimo governo così apparentemente bellicoso verso certi strati dei suoi cittadini. Il messaggio letto è cortese, un atto di libertà di espressione, nel quale con poche parole si proclama la preoccupazione non solo di essere dimenticati ma neppure protetti.

Ma un messaggio politico non è mai semplice. Visto dentro al contesto di questa operetta in cui i protagonisti della storia cambiano colore e identità, e in cui inoltre l’immigrazione è glorificata e anche centrale, si presentano delle problematiche non da poco. Mi soffermerò solo sulla questione dell’immigrato. 

Ascoltavo recentemente qualcuno qui a Bologna parlare di un certo personaggio importante nordamericano il quale lo era anche per appartenere a quella casta aristocratica della famosa barca, il Mayflower. Giustamente anche, perché questo mito è ancora molto vivo negli States. Quindi quando si dice “immigrazione” non ci si riferisce sempre a quei poveri che hanno coraggiosamente attraversato l’Atlantico fuggendo dai paesi del nord Europa, come ora lo fanno i latinoamericani attraversando il muro che già si estende per chilometri fra il Texas e il Messico, ma prima ancora il fiume e la temibile frontiera. 

L’immigrazione inizia nel Seicento e procede ancora. Inoltre, il nero non è un immigrato ma uno sradicato involontario nella lunga epoca della schiavitù. Questa confusione che si esprime ormai con interminabili cliché è alla base dell’errore di questa America del Nord che si sta pericolosamente avvicinando all’orlo di un potenziale spacco civile, di cui i responsabili sono i cittadini agguerriti del Sì e quelli altrettanto bellicosi del No. Ora dobbiamo essere attenti noi, qui in Italia. Le patologie politiche sono contagiose.