Piaccia o no, la parola “femminicidio” è entrata nella lingua italiana. Oggi fa sorridere la garbata polemica cui hanno dato vita sulle pagine del Corriere della Sera e del blog la 27esima ora Isabella Bossi Fedrigotti e Barbara Spinelli a proposito della sua cacofonia e dell’opportunità (o meno) della sua adozione. La parola ha fatto capolino nel vocabolario italiano sospinta dai lavori della Convenzione di Istanbul 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, firmata dall’Italia nel 2012. Le posizioni delle due intellettuali, bene espresse dai titoli dei loro articoli: “Ma non chiamatelo più femminicidio” (Bossi Fedrigotti, 2012) e “Perché si chiama femminicidio” (Spinelli, 2016), sono rimaste emblematiche anche rispetto al dibattito successivo e ai tanti articoli che si sono susseguiti in occasione dei tragici eventi di cui la cronaca, con implacabile costanza, ci informa.
Tra le ragioni di Isabella Bossi Fedrigotti — scrittrice affermata e presidente di Plan International Italia, l’associazione internazionale impegnata per la difesa dei diritte delle bambine — c’era il timore che il femminicidio finisse con l’indicare una sottospecie di omicidio, in qualche misura meno importante dell’omicidio tout court, assieme a un certo (condivisibile) fastidio nel vedersi scalzata dal posto di donna — un al di là della natura che non deve attendere l’altra vita — in (s)favore dell’al di qua del mero dato naturale femminile. Per rassicurarla, Barbara Spinelli le snocciolava le ragioni (storiche) della parola femminicidio già raccolte nel suo libro dall’omonimo titolo (Feltrinelli, 2011).
Il manifesto delle donne che con forza hanno voluto il conio di questa nuova parola lavorando di concerto sul piano politico e giuridico per la prevenzione di questi fenomeni, è il famoso quadro del 1935 intitolato Unos cuantos piquetitos (solo qualche piccola punzecchiatura) della pittrice messicana e militante comunista Frida Kahlo. L’opera raffigura una donna uccisa per gelosia a coltellate e il suo assassino, includendo nella rappresentazione, sul modello degli ex voto, una frase di quest’ultimo riportata dai giornali. Un’opera decisamente avanguardistica non solo per l’inconfondibile stile dell’artista, oscillante tra l’onirico e il naïf, ma per la potente capacità di anticipare una sensibilità allora pressoché assente e in grado di riconoscere nella stessa frase dell’assassino, che dà il titolo al quadro, la volontà di svilire la donna anche nel corso del dibattimento processuale.
Il neologismo “femminicidio” è stato messo in valore da alcune studiose messicane e americane nei primi anni novanta, alla ricerca di un nome per indicare i crimini nefasti che hanno portato alla sparizione di migliaia di giovani donne. Di loro alcune centinaia sono state torturate e uccise ad opera di bande di narcotrafficanti a Ciudad Juarez, la città messicana al confine con gli Usa, considerata la capitale storica del femminicidio. Sono le “donne a cui hanno strappato ingiustamente la vita” che Papa Francesco ha voluto ricordare nella sua visita del 17 febbraio 2016 in quella città.
Teorizzatrici del concetto di femminicidio come Marcela Lagarde hanno individuato nella violenza contro le donne un punto di contatto con l’odio razziale. Un odio che non è motivato da un torto realmente subito, ma che si rivolge all’altro in quanto tale, facendo paranoicamente leva sulla paura della differenza di sesso, razza, cultura, religione. Un odio che è il nome di un legame (perverso) dove l’amore è sempre solo millantato e va in scena come formazione reattiva, ovvero come dissimulazione e come maschera. Si tratta di un odio particolare, non empirico. Diverso da quello studiato da Spinoza nella sua Etica, perché non nasce come risposta a un dis-piacere o un’offesa o un danno subito da parte di un altro reale. Giacomo B. Contri lo ha chiamato “odio logico” perché nasce come odio per il posto dell’altro in quanto tale. Nella relazione manca il posto dell’altro perché paranoicamente pensato come pericoloso, ostile e per questo temuto, disprezzato e negato.
In anticipo sulla Convenzione di Istanbul il grande pubblico sì è affacciato al tema dell’odio logico per la donna con la trilogia Millennium (Marsilio, 2007), che inizia con Uomini che odiano le donne. Con ottanta milioni di copie vendute in cinquanta paesi (quattro milioni solo in Italia) il poliziesco di Stieg Larsson (1954-2004) ha rappresentato un successo mondiale al quale ha sicuramente contribuito la forza della protagonista femminile: Lisbeth Salander, l’eroina che non cede mai al ruolo di vittima, ma neppure resta prigioniera della gabbia paranoica che rappresenta l’uomo solo come offender, risuscitando nella sua esperienza la possibilità della partnership con Mikael Blomkvist, il protagonista maschile dell’avvincente thriller.
Un pensiero, quello della partnership uomo-donna, che attende di essere adeguatamente elaborato negli ambienti dell’attivismo post-femminista ancora in gran parte condizionati dal retaggio culturale che inclina al sospetto verso l’altro dell’altro sesso. Le conseguenze sono visibili anche nelle normative nazionali che attuano la Convenzione di Istanbul, come in Italia la legge 93/2013 che obbliga i Centri Antiviolenza e le Case Rifugio ad avvalersi esclusivamente di personale femminile.
Insomma, a un redivivo Larsson che volesse mettere la propria competenza al servizio delle donne accolte da questi centri non resterebbe che cambiare sesso.