“Vado verso la mia benedetta Raïssa/ come l’uccello verso il suo nido,/ come la rosa verso il sole,/ come l’anima assetata verso le fonti della vita…”: il lato privato del fuoco di esperienze da cui è scaturita l’avventura di uomo e di intellettuale dell’illustre filosofo Jacques Maritain, esponente di spicco della grande cultura cattolica francese del primo Novecento, è ben illuminato da questi suoi semplici versi, citati in apertura del capitolo che gli dedica il prezioso volume di Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese: Il buio sconfitto. Cinque relazioni speciali tra eros e amicizia spirituale (Effatà editrice, 2016).



Maritain non è stato uno studioso che si sia fatto da sé. Il suo tentativo di ripensamento delle categorie portanti della più classica tradizione del pensiero cristiano, davanti alla crisi dell’oscuramento contemporaneo del senso religioso, è partito ed è stato continuamente nutrito dal sodalizio affettivo con la donna di origine russa e famiglia ebraica, emigrata in Occidente ancora ragazza, a cui Maritain rimase legato per l’intero corso dell’esistenza. Il libro descrive il loro incontro tra le aule della Sorbona di Parigi, il comune entusiasmo per Bergson, il riaccendersi dell’interesse per la fede, il cammino condiviso di ritorno al grembo della Chiesa, in particolare attraverso il rapporto con Léon Bloy, da “violento anticlericale” a sua volta da poco convertito in “fervente cattolico”. 



Sposatisi nel 1904, Jacques e Raïssa Oumançoff ricevettero il battesimo l’11 giugno del 1906, avendo Bloy come padrino. Da lì venne l’impulso decisivo a gettarsi in una nuova forma di vita, dominata dall’ansia di rimettere il primato di Dio al centro di un’opera febbrile di elaborazione della cultura, spinta a misurarsi senza complessi con il dibattito filosofico del loro tempo, a calarsi nella realtà della politica, a rivestirsi di un’estetica fatta di arte e di poesia per rilanciare il valore della verità cristiana come unica forza in grado di rigenerare il cuore dell’uomo, facendo progredire il mondo moderno verso un autentico “umanesimo integrale”. Non si accontentarono del minimo richiesto. Trascinati dall’oltranza delle loro scelte da neofiti, i Maritain vollero identificarsi fino in fondo con il credo che avevano accettato di professare e portarono alle estreme conseguenze la consegna del loro io a Cristo.



Nel 1912 formularono voto di castità, facendo del loro matrimonio, riletto nella prospettiva di una consacrazione di tipo monastico, il cemento di una militanza tesa alla perfezione della santità, nel segno di una missione di servizio e di testimonianza dilatati allo spazio aperto del mondo. Era un modo molto particolare, bisogna ammetterlo, difficilmente proponibile come norma da seguire, per vivere le forti esigenze della vocazione cristiana all’interno dello stato di laici coniugati innestati nella realtà secolare dell’oggi. 

Il libro che presentiamo fa emergere molto chiaramente anche questa varietà degli esiti a cui può condurre la relazione tra uomo e donna quando cessa di essere soltanto il campo di espressione dell’attrazione istintiva e si risolve nel veicolo di una fusione che esalta la dignità ultima della persona e oltrepassa, magari senza neanche averlo mai attraversato, il linguaggio della carnalità materiale dei corpi, puntando diritto alla comunione.

La vicenda dei coniugi Maritain si distacca infatti profondamente dalla parabola di un altro grande convertito della Francia del primo Novecento: Charles Péguy. A lui è dedicato il capitolo di esordio del volume. Anche Péguy entrò in contatto con Bloy. Frequentò la cerchia a cui erano legati i Maritain ed ebbe un non facile rapporto diretto proprio con loro. Ma il neotomismo radicalmente “ortodosso” dall’inventore della formula del “distinguere per unire”, attento a rimarcare la gerarchia dei diversi piani della realtà e a difendere il progetto di una ricristianizzazione per via etico-politica della moderna società laicizzata, faticava a conciliarsi con l'”antropologia dell’incarnazione” del poeta entusiasta di Giovanna d’Arco. 

Per Péguy, erede di un ardente socialismo libertario spiritualizzato, la fede restava una passione trasfigurante, disposta a portare dentro la materialità della vita del mondo il fuoco di una grazia immaginata ancora capace di incorporare la natura e l’esperienza quotidiana dell’uomo, “oltre ogni dualismo” e “senza strappi”, nel tessuto di una coincidenza inestricabile di destino. Anche le norme disciplinari e le conseguenze pratiche che si facevano discendere dall’appartenenza alla Chiesa divisero il poeta-patriota e l’amico filosofo. Péguy non volle mai tradire i suoi doveri di coniuge sposato civilmente con Charlotte Baudouin, che non lo seguì, finché lui rimase in vita, sulle strade del riavvicinamento alla fede cattolica e nella lotta per la rigenerazione della società borghese. 

Non avendo lui spezzato questo legame che riteneva sacro anche se minato da una turbolenta conflittualità interna, Péguy non poté essere ammesso ai sacramenti e restò ai margini del culto ufficiale della Chiesa, trattato come un innamorato respinto. Anche Maritain si unì al coro insistente di quanti premevano perché Péguy regolarizzasse la sua posizione, tra l’altro nella difficoltà plateale di farla convivere con l’affetto ben più promettente nato, nel corso del tempo, con un’altra donna che invece collaborava all’impresa dei Cahiers del poeta “ribelle”: Blanche Raphaël. Anche dopo il matrimonio di costei, Péguy si trovò a continuare a combattere con il rischio di cedere all’attrattiva di un fascino a cui avvertiva di non potersi in coscienza piegare, perché il suo cuore era già stato sigillato in modo esclusivo davanti alla legge.

L’amore che non si risolve nell’apollinea armonia della pace e della perfetta soddisfazione reciproca, garantite per sempre fin dal primo accendersi di un vincolo tra persone che si giurano vicendevole affetto, ritorna come sottofondo nell’esperienza di Igino Giordani, messa a tema di un altro capitolo di questo libro. Anche qui si assiste allo svuotamento della riuscita sentimentale di un matrimonio che pure aveva accompagnato con lusinghiere promesse l’avvio della vita matura di un uomo di cultura, giornalista e attivista politico cattolico di primo piano nell’Italia dei decenni compresi tra l’avvento del fascismo e la ricostruzione dell’ultimo dopoguerra. Ma la prova sofferta delle oscurità calate sul legame sponsale, sacrificato nelle sue forme di espressione più consuete, divenne per Giordani il terreno su cui mise radici, dagli anni Cinquanta in poi, l’incontro con Chiara Lubich, la laica trentina fondatrice del movimento dei Focolari. Dai fatti della storia vissuta, Giordani si sentì chiamato a fornirle tutto il sostegno della sua ricca esperienza, assumendone gli ideali come regola di vita per sé e come nuovo indirizzo di un compito finalizzato a immettere la freschezza liberante dei consigli evangelici dentro la vita concreta del mondo. 

Linee ancora diverse presentano le ultime due esperienze di unità tra uomo e donna ricostruite in questo libro che fa davvero molto pensare: da una parte, ai vertici dell’Italia politica dell’ultimo secolo, il luminoso profilo del rapporto che consentì ad Alcide De Gasperi di “vibrare all’unisono” (così scrive in una delle sue lettere stupende) per l’amore rivolto alla donna che gli rimase al fianco fino al termine della sua vita, Francesca Romani; dall’altra, in un ben diverso contesto di percorsi personali e di esiti culturali, la trama delicata dell’amicizia spirituale che legò in un indissolubile connubio il geniale Hans Urs von Balthasar e la mistica Adrienne von Speyr, sodalizio da cui germogliò la fonte ultima di ispirazione di tutta l’opera più matura del grande interprete moderno della tradizione teologica della Chiesa centrata sull’autorivelazione dell’amore che salva ogni cosa.

Il centro di unità che connette tra loro i fili di storie umane tanto divergenti chiama sempre in causa la sfida cruciale contenuta nel mistero dell’eros. Proprio al fondo del suo impasto così prepotentemente terrestre, la forza mobilitante dell’energia affettiva che spalanca all’altro da sé nasconde quella che si può definire una prodigiosa scintilla divina. Invogliando a inoltrarsi sul cammino dell’appagamento che aspira alla massima intensità e alla massima perfezione possibili, l’estasi dell’amore non può bastare a sé stessa. Inseguendo l’assolutezza del tutto per sempre, in mezzo al cumulo di scorie di cui risulta invischiata, diventa una freccia lanciata verso il desiderio del compimento nell’unione totale. Ma perché questo accada, la volontà di possesso e l’inclinazione allo sfruttamento egoistico devono lasciarsi capovolgere nella disponibilità ad affermare l’altro abbracciandolo in tutta la diversità che lo fa essere davanti a noi come un dato irriducibile, che ci precede e impone di fargli spazio.

La dinamica dell’eros mostra così di racchiudere in sé, strutturalmente, la capacità di risuscitare, anche attraverso le ferite della sua precaria fragilità, la vocazione a una pienezza o a una purezza originarie, intrise dalla nostalgia di tenere insieme il bene di sé e l’affermazione del bene dell’altro, l’anelito alla conquista e la rinuncia di una distanza che lo lascia integro, lo salva, senza ridurlo a strumento del proprio consumo immediato. Lo si vede bene nell’esperienza della maternità, e altrettanto in ogni vera donazione verginale. Risalendo alle fonti della gratuità che si compie nel bene totale dell’altro, Eros si riveste di Agape. Fiorisce nella feconda apertura dell’amore che non si lascia sminuire dal sacrificio della spartizione, e così irradia la sua luce contagiosa nel mondo degli egoismi che bruciano e delle divisioni che lacerano, generando una potenza risanatrice che va ben oltre quella della pura naturalità biologica. Alla fine, anche Eros si redime.