Sulla copertina de La storia di Elsa Morante, il romanzo che l’editrice Einaudi ha ridato alle stampe a 40 anni dalla prima uscita, compare l’immagine di un bambino seduto e sperduto su una lastra di pietra attorniato da un immenso cumulo di macerie. E’ un’immagine sintesi del romanzo che insieme alla citazione di Luca (10,21) in esergo — “Hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli… perché così piacque a te” —, lascia intuire che forse sono i bambini, in quanto capaci di stupore, gli unici bravi a stare al mondo, un mondo incomprensibile e bloccato dallo scandalo del male e della guerra.
Vale la pena rileggerlo questo romanzo perché fa comprendere meglio l’epoca in cui viviamo oggi, definita da papa Francesco, con espressione felice, non un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca. In cosa consisterebbe un tale cambiamento epocale? Se si riesce a “stare” davanti alle pagine e a quanto vi si narra, senza frettolosità e schematismi, si comprenderà meglio il tempo presente rispetto al passato. Quella della protagonista — Iduzza — a tutta prima sembra rientrare nel filone narrativo di una delle tante storie di lotta per la vita. Di certo oggi nelle nostre città, sulle strade, nelle case viviamo una sorta di lotta per la vita, per certi versi una selva oscura più aspra e forte — direbbe Dante — di quella di Iduzza sotto le bombe di Roma nella seconda guerra mondiale.
Sul serio esisterebbe qualcosa di più devastante delle bombe? Sì, è l'”insostenibile leggerezza dell’essere“, è la “trascuratezza dell’io” di cui è fatta la vita e la convivenza nelle nostre città. Come è stato possibile infatti che sulla nostra sponda dell’Adriatico, nel 1992, sulle auree spiagge di Iesi o Eraclea, italiani e turisti stranieri trascorressero ignari e del tutto tranquilli le loro vacanze, mentre sulla costa dalmata si perpetravano orrori quali fosse comuni, lager, stupri, stermini di massa? Orrori che pensavamo esserci lasciati alle spalle? Com’è stato possibile? Lo è stato per quegli “immani squarci di vuoto della coscienza e di sperdutezza della memoria” (don Giussani) nei quali consiste l’oblio di sé, quella trascuratezza di cui si vive anche oggi in grado maggiore di ieri. Basti pensare a come sappiamo passar oltre il terrorismo, la distruzione di un’intera nazione (la Siria), di intere città (in Iraq e in Libia), oltre la tragedia di migliaia di migranti affogati davanti a Lampedusa (oltre 3mila morti negli ultimi anni!).
Ciò che si impara dal romanzo della Morante è stare nel reale senza sovrastrutture ideologiche. Proprio ciò che l’uomo di oggi non sa più fare rispetto a ieri, stare davanti a quanto accade, qualunque cosa sia ciò che accade, senza idee o schemi, accettando innanzitutto e supremamente il fatto che accade. Il male non è primariamente la morte, la malattia, la violenza altrui, l’incidente o l’accidente, il limite o l’imperfezione, lo stupro di cui si racconta ne La storia, ma il fatto che, tacitamente o esplicitamente, oggi non si riconosca più un rapporto positivo con la vita o, detto meglio, con una forza o una presenza più forte del male. L’uomo non vede più il rapporto che lo costituisce “oltre il male” di cui è impastato.
Oggi gli uomini si sentono soli davanti ad una realtà che non sentono amica, anzi, che sembra minacciarlo come avesse davanti un destino di male, punto. La radice di ogni male, la sua essenza è l’incapacità dell’io ad accogliere ciò che gli avviene. L’io è obnubilato, eclissato perché non percepisce più una relazione più grande, qualcosa di più forte con cui impattare la vita. Le circostanze gli procurano turbamento, quasi un orrore e la facoltà di accettare quanto accade ne viene paralizzata, non sa reagire. Ida e i protagonisti del romanzo della Morante da questo punto di vista non sono affatto dei vinti.
La realtà chiede innanzitutto di essere vissuta, il vizio tutto moderno di stare di fronte al reale, sempre immaginandoselo diverso da come esso è mentre chiede prima di tutto di essere accettato, porta l’uomo alla follia e al nulla. E’ su una posizione umana diversa che Elsa Morante ha costruito il personaggio più significativo del romanzo, Useppe, che è tutto disponibile e tutto aperto al flusso del vivere così come esso gli viene incontro. Proprio l’opposto dell’episodio di quella SS, che mentre veniva portata al patibolo sul far dell’alba, a una cinquantina di passi dall’esecuzione, scorge su un muro sberciato un fiorellino “di quattro petali violacei e di un paio di pallide foglioline” e in quel fiorellino per un momento vede con stupore “tutta la bellezza e la felicità dell’universo”: e mentre pensa che, se avesse potuto fermare il tempo, sarebbe stato disposto a passare l’intera sua vita in adorazione di quel fiorellino, ad un certo punto grida: “No! Non ci ricasco, no, in certi trucchi!”. Benché con le mani legate, si avventa sul fiorellino e con i denti lo stronca, lo butta a terra e gli sputa sopra. Questo accade nella vita a chi, succube dei propri costrutti mentali, non sa stare davanti al reale, riconoscendolo per quel che è: un fiore, come la vita, come ogni circostanza, vanno vissuti, immersi in essi senza pre-giudizi o teoremi: solo così si riesce a scoprirne la gratuità, il “fatto” che, miracolosamente, ci sono.
La compassione aleggia dalla prima all’ultima pagina, mista ad una grande tristezza per i destini degli uomini e delle singole esistenze. La speranza affiora qua e là nei termini (non certo manzoniani) di una presenza o provvidenza che riesce a dialogare con l’uomo e la sua libertà; compare nascosta e intermittente, ma l’esplosione di fatti, eventi, episodi narrati permette di dire che non siamo davanti ad un romanzo dal pessimismo cosmico, di stampo romantico o di derivazione naturalista; quella della Morante è visione neorealista, non nichilista.
Ma c’è di più. A rileggerlo oggi, a oltre 40 anni dalla sua prima uscita, l’effetto è quello di trovarsi di fronte ad un grande affresco sul quale il lettore è portato, quasi naturalmente, ad alzare lo sguardo, è portato ad attendersi nella vicenda umana, amara e a tratti cupa, una svolta, è portato ad augurarsi che possa accadere qualcosa in grado di cambiare le relazioni umane, la convivenza familiare e sociale, la vita, insomma, in una parola, la storia.
Ma nulla accade. Ne La Storia sembra non esserci spazio per la grazia. Il romanzo è quindi di una grande tristezza, e tuttavia la compassione e la partecipazione pervadono la vicenda, aleggiano in ogni pagina. Come scriveva Montale in una lettera alla sorella Marianna, “non credo a ciò che si vede e si tocca soltanto… non posso credere solo a ciò che si fa vedere e non si mostra“, così è con la scrittura della Morante: è semplicemente impossibile che nella storia e nel destino dell’uomo prevalgano morte, dolore e follia. Amore, poesia, giustizia, fraternità, pace, lavoro… affiorano di continuo come aspirazioni, esigenze originarie in tutti i protagonisti, ma restano solo a livello di possibilità pure. In un certo senso, possibilità senza storia. Ecco La Storia di Morante. Benché la speranza non emerga mai nei termini espliciti di una domanda di significato, in realtà essa è sempre presente, è a tema come attesa muta e desiderio di una svolta negli eventi. Non c’è invocazione, niente, nessuna domanda di salvezza. Ma quel grido sordo e quasi soffocato che attraversa tutto il romanzo è come la linfa vitale, è il sangue di Cristo ancorché non riconosciuto, è come un fiotto ininterrotto di squarci di intensità, di natura palpitante, di bontà umana, di legami forti, di desiderio di felicità e di pace; squarci che si dischiudono e si chiudono, si innestano nelle vicende e poi si dissolvono e così per l’intera narrazione.
Non c’è nella Morante pietas ma l’esito della sua scrittura, per una sorta di eterogenesi dei fini, è davvero la compassione. Miracolo della scrittura! E quanta poesia a tratti in questa scrittura, disseminata da lacrime e sorrisi. Una scrittura che testimonia, come diceva Pascal, che “l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo”, una scrittura che sorpassa se stessa perché mentre racconta l’umano o lo descrive, non ne esaurisce né definisce il mistero ma in qualche modo ci restituisce l’uomo cambiato, diverso — forse — redento.