Che il kantismo su cui si fonda il nostro normale modo di “pensare il pensiero” scricchioli, non è tanto un tema da filosofi, ma una constatazione che sempre meno — in questo tempo incerto — si può impunemente contestare. Lo vedono gli spiriti più avvertiti nella loro speculazione, lo vede benissimo l’uomo della strada, che più cerca di capire il quotidiano, di inquadrarlo in una pratica di vita, più lo vede sfuggire in ogni direzione. La griglia non tiene.



E siccome, appunto, non si tratta di schermaglie filosofiche ma di storia del pensiero umano — di quella incerta, zoppicante e misteriosissima costruzione collettiva che dagli alberi ci ha portato a Lascaux, da Lascaux a Giotto e da Giotto a noi — la comparsa di un libro come The Philosophy of Gesture. Completing Pragmatists’ Incomplete Revolution (McGill-Queen’s University Press, 2015, 196 pp.), rappresenta qualcosa che attiene senz’altro al mondo dei pensatori di mestiere, ma che interessa e racconta del modo di pensare di noi tutti. Noi, che tante volte viviamo credendo di non pensare, ma che invece — per il solo fatto di vivere e agire — affermiamo sempre una visione del mondo, per quanto inconsapevole possa essere.



Autore di questo libro, che rischia seriamente di diventare una pietra miliare, è Giovanni Maddalena, professore di Filosofia della letteratura e Filosofia della comunicazione e del linguaggio all’Università del Molise, tra i massimi esperti mondiali di Peirce e del pragmatismo. Ed è proprio Peirce, ancora una volta, il motore che spinge la ricerca di Maddalena nella sua critica a Kant. Lo spiega molto bene l’autore stesso, polarizzando le due posizioni intellettuali di fronte alla realtà nelle affermazioni “io penso che”, che fonda la visione dell’io kantiano, e “non trovi che sia così?”, che muove invece la ricerca peirceiana. 



Se ci fermiamo un attimo, la diversa consistenza delle due posizioni si rivela subito. Nel primo modo, infatti, il pensiero precede l’oggetto; nel secondo, l’oggetto precede il pensiero, che è invitato non a una fondazione ma a un riconoscimento. Nel primo caso, l’io, anche inconsapevolmente, si concepisce irrelato e si educa a forzare la realtà. Nel secondo, si educa a riconoscere la realtà — ed eventualmente, poi, a forzarla.

Ma se questa pars destruens del paradigma kantiano già sarebbe sufficiente a descrivere la singolarità del lavoro di Maddalena, la vera novità è nella sua pars construens, nell’elaborazione cioè di quella filosofia del gesto che dà il titolo al libro. Secondo Maddalena, infatti, le critiche più avvertite a Kant — e risalendo all’indietro, a Cartesio — hanno prevalentemente spinto sul pedale dell’irrazionalismo, secondo uno schema mentale per cui il razionalismo non è sufficiente a dar conto delle cose più interessanti del vivere — come l’amore, il dolore, il desiderio di potere, il male — e perciò l’uomo è fatto di una parte razionale, quella noiosa che serve per perpetuare la specie, e di una irrazionale e sentimentale, quella divertente ma in fondo “sbagliata”. È l’apoteosi del pensiero dualista, di quella opposizione sacro-profano che l’uomo avverte intimamente ingiusta, tanto da reagire con la fuga nell’irrazionale alla pretesa regolatrice del razionalismo.

La filosofia del gesto parte dal presupposto che queste filosofie irrazionaliste e romantiche, pur movendo da esigenze nobili e reali, finiscano con l’accettare e perpetuare il paradigma kantiano. Non sarà invece, si chiede Maddalena, che sia proprio il concetto di ragione che questo paradigma ci impone a dover essere contestato? Da questa domanda è partito un lavoro di ricerca di anni, che attraverso l’incontro con matematici quali Giuseppe Longo e Fernando Zalamea — che scrive un’introduzione partecipe e grata — e con la riflessione dei pragmatisti americani di cui è esperto, ha portato l’autore a scoprire, nelle sue parole, che “l’effettivo esercizio della scienza — la scienza degli scienziati, intendiamo, non quella del filosofo — richiede un altro tipo di ragionamento da quello analitico; un ragionamento che io chiamo sintetico e che ha il vantaggio di essere il riconoscimento dei significati ‘in azione’ e il nostro interagire con questi significati per farli diventare più precisi, più evidenti. In concreto, significa che lo scienziato che voglia verificare la struttura dell’atomo deve inventare un esperimento concretissimo, ragionare su tutti gli elementi che ha, sulle possibilità e sui risultati che ottiene per identificare una legge”. La stessa operazione, continua, che fa una persona “quando per dire ‘ti voglio bene’ organizza una serata pensando a che cosa succederà, a che cosa dirà, e si muove in un certo modo, si industria, orienta la sua azione in base alle risposte che ottiene”. La stessa operazione, infine, che fa l’artista, il quale “passa da un’impressione a una determinazione molto concreta e precisa per ottenere — attraverso fatica e tecnica — dei significati generali”.

È un pensiero nuovo, e tanto più nuovo quanto più affonda nella natura ultima dell’uomo e delle sue esigenze spesso misconosciute e violentate. Un pensiero — anzi, la descrizione di un modo di pensare a noi connaturale — che meriterebbe perciò di essere diffuso e studiato. Si parla continuamente, come in un refrain estivo, di fuga dei cervelli. Ecco, Maddalena non è fuggito, sta in Molise, viaggia molto (École Normale Superieure di Parigi e Università di Indianapolis, fra le tante) e pubblica con la casa editrice della McGill University. Nemo propheta in patria, d’accordo, ma davvero nessun editore e nessuno degli infiniti centri studi che popolano il Belpaese si sente di investire nella traduzione di questo libro? Davvero la possibilità di scoprire un pezzo profondo di noi vale così poco?