Il cordoglio espresso da più parti in conseguenza della morte di Fidel Castro ha dato modo di constatare in che misura colui che, a tutti gli effetti, è stato il più alto rappresentante di una dittatura ancora in corso, riceva un commiato che va ben al di là dell’omaggio alla persona. In realtà, con la scomparsa del líder máximo si piange il mito della rivoluzione cubana del 1959: e sono infatti le immagini in bianco e nero di quest’ultima, girate dalla regia di coloro che questa rivoluzione l’hanno vinta, che compaiono in questi giorni sugli schermi dei network televisivi internazionali.
Di fatto Fidel Castro, esattamente come il suo compagno d’armi Ernesto Guevara, costituisce tutt’ora uno dei miti che hanno accompagnato l’adolescenza di molti di noi e che è parte integrante di un altro mito, ancora più ampio: quello della rivoluzione socialista. Ed è proprio sull’inossidabile persistenza di questo mito, che tanto ha affascinato la mia generazione e che è rimasto a lungo sotto le carte, che si impongono due constatazioni.
La prima è di ordine politico ed è costituita dalla passione implicita che il pensiero progressista occidentale nutre nei confronti dei progetti radicali di trasformazione rivoluzionaria, là dove la presenza del consenso e dell’entusiasmo popolari mettono rapidamente in ombra il lato oscuro e assassino della dittatura di turno. Perché si è così indulgenti a sinistra quando non si penserebbe minimamente di farlo a destra? Perché il líder máximo è circondato da un’aura di cortese rispetto, mostrando canti, bandiere ed entusiasmi da un lato e, tacendo simultaneamente sui disastri umani, oltre che politici ed economici che ha comportato dall’altro? Perché un qualsiasi cedimento di simpatia nei confronti dei rappresentanti delle dittature di destra ci appare semplicemente come impensabile prima ancora di essere improponibile? Perché morti e violenze “pesano” in modo differente, al punto tale da metterli, in uno dei due casi, serenamente tra parentesi?
La risposta la dà Chantal Delsol, nel suo libro Le discours de la haine, quando ci fa osservare come i due totalitarismi, se sono uguali per disastri prodotti, e quindi per gli eccidi e le violenze di cui si sono resi responsabili, non lo sono affatto per le rispettive utopie che hanno portato avanti. Nel primo caso si tratta di utopie che hanno preteso di accelerare il progresso, forzando quella che, in qualche modo, appare come un’evoluzione della storia. Nel secondo caso si è trattato invece di utopie che miravano a restaurare il passato, rivisitato e presentato come un’epoca comunque benefica della quale si sarebbe persa memoria. Nella logica della modernità che ci pervade sono le prime a ricevere la nostra indulgenza, non certo le seconde.
Di fatto della révolucion cubana abbiamo condiviso il desiderio di futuro, l’ansia di una palingenesi capace di bruciare le tappe, la sfrontatezza di imporre regole nuove ope legis o, se si preferisce, con la canna del fucile. Nel mondo degli anni sessanta nulla è stato tanto esteso quanto questo desiderio di mutamento radicale, di un assetto sociale che non coincidesse con le aspre regole del mercato ma si rivelasse capace di sovvertire le mille soperchierie che, di fatto, prosperavano tra le maglie del sistema. È un simile desiderio che ci rendeva la rivoluzione cubana come qualcosa di immediatamente comprensibile.
La seconda è invece di ordine sociologico ed è costituita dalla capacità delle visioni artefatte della storia di imporsi sulle notizie reali, creando una distorsione della realtà nella quale si finisce per cadere con molta facilità. La politicamente correttissima risposta delle diverse autorità politiche e culturali alla morte di Castro ne costituisce una prova evidente. Non ci fossero gli esuli e le attenzioni della stampa a rivelarci i segreti dell’oligarchia cubana, saremmo tutti ancora ad inneggiare alla mitica revolucion, ai suoi canti ed alle sue bandiere. È questa nostra cecità dinanzi al male, la nostra pervicace volontà di leggere solo un lato della medaglia, impedendoci di guardare gli orrori che nasconde dall’altro. È questa nostra congenita debolezza a costituire la facile attrattiva delle dittature, il discreto e suadente richiamo del paradiso in terra, qualunque esso sia. Le dittature del secolo scorso si sono tutte avvalse di questo crinale sul quale così facilmente scivoliamo.