Cristiana Caricato è forse la miglior vaticanista in circolazione. Puntuale, diretta, mai enfatica, mai capziosa e faziosa. Si intuisce quando conduce, quando racconta il papa e la chiesa che è di parte, nel senso letterale del termine, cioè che appartiene, è partecipe. Si capisce che il suo lavoro le piace, ma è anche servizio. Così i libri che ha firmato: resoconti di viaggi, o meglio pellegrinaggi, e di incontri alla radice della fede e delle domande fondamentali che agitano il cuore di ogni uomo. E’ inedito leggerla nella veste di narratrice di una storia creata, come in questo Due Madri, appena pubblicato da Città Nuova in una collana originale che unisce al racconto lungo di una penna capace il saggio “tecnico” di un esperto del tema suggerito dalla fantasia. Nel caso di Due Madri, del professor Giuseppe Noia, insigne ginecologo che da sempre non fa solo il medico, ma il padre, l’amico di tante donne che ha aiutato a generare e a vivere la maternità come un dono. Due Madri è il lungo prologo che gli offre materia per ragionare e proporre la sua esperienza sulla simbiosi tra mamma e figlio, sulla sua visione della fecondità.
Due Madri è un incrocio di vite e da subito si palesa come parabola. Ci sono due donne e un incontro casuale: entrambe ferite dalla vita, per scelta o per caso, ed entrambe redente dal diventare madri davvero. Non si tratta solo di maternità biologica, ma della ben più matura coscienza di una maternità spirituale, connaturata al femminile che poco a poco si svela. Ilaria soffre il dolore di un figlio non nato, ed è una pena che la indurisce, la fa estranea all’amore, al desiderio, alla speranza. Alice è un’eterna ragazza sbandata, che ha avuto una figlia, ma non l’ha cresciuta, e alle soglie dei quarant’anni si ritrova di nuovo incinta e sola: come un animale offeso vive la paura e l’abbandono con rabbia e violenza, ribellione, esprime con il rifiuto il rimorso per quel che ha perduto. Ha perduto gli affetti, la stima degli altri e di sé, ha deciso per la desolazione e la vita di strada.
Poi le due donne si incontrano e per un soccorso istintivo di quella a posto, di quella all’onor del mondo, diventano sostegno l’una all’altra, occasione di cambiamento reciproco. Ilaria aiuta Alice riottosa a credere nel bambino che si agita nel suo ventre, ad accettare di essere aiutata e voluta bene, accudita; c’è sempre la possibilità di cambiare e rinascere, ed è un bimbo che geme la notte di Natale, suo figlio, a farla finalmente ritrovare come figlia, madre, sorella. Ilaria impara aiutando ad abbandonarsi, a far sgorgare la sofferenza e accettare di essere abbracciata.
Parlo di parabola perché è stato il primo pensiero leggendo, ripercorrere il testo evangelico del Figliol prodigo: le due donne sono i due fratelli che erroneamente definiamo il buono e il cattivo, il salvato e il perduto. E’ il più giovane e scapestrato a squarciare la gabbia in cui l’ha costretto la colpa, a tornare a casa, accogliere l’abbraccio del Padre. E’ il più maturo e perbene a ritrarsi, a scandalizzarsi, ad attendere un risarcimento dovuto, preteso. Non sappiamo come il racconto del Vangelo si concluda: se il fratello maggiore entrerà finalmente al banchetto e farà festa col fratello perduto e suo padre. Sappiano che questa possibilità c’è, ed è il disegno buono che Dio ha tracciato per ogni uomo e donna creati. Sappiamo che Ilaria e Alice, tutt’e due, sono salvate da un Figlio.
In poche pagine asciutte, che nulla concedono al sentimentalismo, il racconto disegna due destini davanti alla salvezza, cioè alla possibilità di essere felici. Qui è un bambino ad offrirla, ma nell’esperienza cristiana il Figlio che nasce è il Padre, la sua carne palpitante di neonato liberata dall’utero è il Suo dono. Per il giusto e l’ingiusto, per chi cede e chi resiste, finché un avvenimento imprevisto commuova, cioè muova il cuore a sciogliersi e ritrovare il cammino.