La scrittura di Cristina Marginean Cocis ha valori forse più poetici che meramente narrativi: questi sono la peculiarità e la forza di Zero Positivo (Gaspari Editore, Udine 2016, 283 pp., 16 euro), un libro raffinato e in cui bisogna entrare con calma e pazienza: queste pagine possono essere infatti ardue all’inizio, per la ricerca di immagini non scontate e per lo scavo nelle possibilità di una lingua che, va ricordato, non è per l’autrice la lingua materna. Cristina Marginean Cocis, infatti, oggi vive in Italia, è moglie di un sacerdote cattolico di rito bizantino, insegnante e mediatrice culturale, ma è nata in Romania, e ha vissuto gli anni tremendi della dittatura di Ceausescu, del clima di sospetto e dell’ateismo di stato. Non per nulla il volume ha come sottotitolo “La forza di una donna dalla dittatura rumena all’Italia d’oggi”: Zero positivo non può essere definito romanzo, ma è appunto il rescoconto di una serie di eventi, sospesi fra il passato — nella Romania di Cesausescu — e il presente, in Italia, che richiedono una grandissima forza alla protagonista.
Cristina racconta la sua storia, alternando i ricordi dell’infanzia e della ricerca del padre (arrestato dalla Polizia di Stato quando la ragazza ha diciassette anni), con le vicende della leucemia che la colpisce mentre è in attesa del secondo bambino. Nessuno sa dire a Cristina quante siano le possibilità di sopravvivenza per suo figlio, che lei ha già deciso si chiamerà Victor, né quali potrebbero essere le ripercussioni di cinquantacinque giorni di chemioterapia su di lui: come sconsolatamente la informa il primario del reparto, troppo rari sono stati i casi di donne curate in gravidanza per una simile forma tumorale perché se ne possano ricavare statistiche certe.
E mentre le ore scorrono lente nella camera di ospedale — e presto Cristina finirà anche in isolamento —, scandite dal gocciare monotono dell’infusione chemioterapica, il silenzio forzato riesce a produrre lo stato d’animo giusto per i ricordi, a partire da un lontano Natale del 1982, festeggiato clandestinamente nell’appartamentino di un gigantesco casermone di dieci piani. Lì Cristina vive con il fratello, la mamma e l’amatissimo papà, un uomo retto e giusto, che instilla nei figli il germe della giustizia e della fede, nonostante le subdole pressioni della Securitate e le periodiche, sinistre visite del signor Alexandru, l’untuoso ispettore politico, che interroga i bambini alla ricerca di una qualsiasi crepa nella facciata dell’ossequio verso il regime. Non va dimenticato che, ancora negli anni 80, in Romania piccoli gesti come avere in casa un albero di Natale, in quanto simbolo di sentimenti religiosi, poteva mettere a repentaglio la serenità e la sicurezza dell’intera famiglia.
E quando il padre di Cristina verrà prelevato proprio dalla Securitate, con l’accusa di essere un traditore (si era trasferito anni addietro in Germania per lavorare, rifiutando poi di denunciare i suoi compagni) e deportato nel famigerato e infernale Delta del Danubio, la figlia si metterà in cammino per trovarlo, aiutata da Hyun Do, un amico, ma anche il figlio adottivo del signor Onescu, membro della polizia politica, accusatore e aguzzino di suo padre.
Piano piano il lettore viene catturato dalla prosa di Cristina, che istituisce un parallelo fra le due vicende rievocate: “per vivere si ha bisogno di una ragione valida, e di una motivazione superiore alle cose passeggere”. Nel Delta, infatti, la sua motivazione era sostenuta dalla consapevolezza che il padre avrebbe reagito positivamente all’incontro con lei e avrebbe trovato forza ulteriore per resistere; in ospedale a Udine, la sua motivazione per resistere e vivere è invece nella necessità di guarire per Ioana, la bambina che la aspetta a casa, e per Victor.
E quando Cristina riesce a vedere il padre attraverso un piccolo spiraglio nella cella, ecco rivelato anche al lettore il fil rouge, il nucleo di senso che collega quell’esperienza a quella nella clinica ematologica di Udine: la ragazza era stata avvertita che forse non avrebbe nemmeno riconosciuto il padre, tanto le sofferenze della prigionia e dei lavori forzati incidevano la carne e il volto degli internati. E infatti Cristina non lo riconosce, o meglio, non può credere ai suoi occhi perché il padre che ha sempre visto non è in quella cella: eppure gli occhi del cuore non la possono ingannare, quello che vede è papà, o meglio, è l’uomo giovane che era stato e che la figlia conosceva solo attraverso le fotografie, quando egli, non ancora genitore, pregava di potere avere un giorno una bambina “dolce e amorevole” di cui già immaginava il sorriso.
Come conclude Cristina, ognuno di noi è prima di tutto un intenso desiderio dei nostri genitori, “parole e preghiere (…) forza generatrice di vita” che diventano carne: così anche la sua stanza di ospedale “non è più una gabbia, ma una opportunità”, la sua possibilità di guarire per raggiungere il suo obiettivo esistenziale: rimanere con tutte le forze accanto ai suoi bambini, desiderati con la forza con cui suo padre aveva desiderato lei nei momenti più cupi della sua vita, con il coraggio della speranza e della fede ritrovata.