Chissà se gli uomini di Lascaux con le loro pietre pestate, o l’Angelico con i suoi ori e i suoi pennelli, avevano in mente che gli strumenti usati segnavano un passo dal dominio della natura a quello della cultura. Se sapevano, cioè, che la loro arte, per esistere, doveva farsi tecnologia.

Un artista che ne è ben conscio, al punto di porre la polarità poetica idea-strumento tra i punti focali della propria ricerca, è Davide Coltro. Classe 1967, di origini veronesi ma pienamente milanese d’adozione, Coltro sviluppa la sua pittura con un’attenzione insistita ai componenti fondamentali dell’immagine come luce e colore. Ed è proprio quest’attenzione, la percezione di quanto siano inscindibili il corpo e lo spirito della materia, a spingerlo verso la trascendenza della pittura digitale prima — con le serie dei Medium Color Landscapes e dei Misteri — e successivamente alla creazione del System, il quadro elettronico con cui ha rivoluzionato i rapporti tra il creatore, la sua opera ed il mondo, facendo diventare la tela elettronica superficie di comunicazione eletta nel dialogo tra artista e fruitore. 



Assurto agli onori delle cronache alla Biennale veneziana del 2011, con l’installazione Res Publica I proclamata regina del Padiglione Italia, System è una tecnica che prevede uno o più schermi elettronici ai quali vengono prima trasmesse e poi processate e visualizzate le icone digitali create dall’autore. L’opera è così in costante divenire: un divenire che non è predefinito (e qui sta una differenza fondamentale con la videoarte), ma che lega invece autore e osservatore nel tempo e nello spazio.



Ce n’è abbastanza, insomma, perché a Heritage interessasse conoscere Coltro e farsi raccontare da vicino il suo lavoro.

Coltro, cominciamo sgomberando il campo da una tentazione: basta un pc collegato in remoto per fare arte?

Sicuramente no. Se l’arte è il luogo in cui tecnica e idea si incontrano fino a confondersi, è chiaro che né l’una né l’altra possono mancare. Io stesso mi rifaccio costantemente al rapporto con la storia dell’arte, in particolare con la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando prima la fotografia, poi l’immagine in movimento cominciarono la loro “danza a tre” con la pittura.



D’accordo. Ma se è così importante il rapporto con le tecniche del passato, con la padronanza manuale del pennello, con la composizione, allora perché non restare sulle tecniche classiche, mi passi il termine, statiche? A che esigenza risponde il quadro elettronico?

Posta così, la domanda porta in sé il rischio di un equivoco. Come dicevamo, infatti, il medium usato o creato e la razionalità nel suo utilizzo sono strumenti dell’opera: necessari, inscindibili, ma pur sempre strumenti, come la creta, la tela e i colori. Perciò, se l’arte è vera arte e non solo decorazione o pura creatività figurativa, in ogni opera deve svolgersi una battaglia esistenziale e filosofica che coinvolga lo stesso rapporto tra idea e mezzo. Il quadro elettronico, in sé, risponde al mio bisogno di confrontarmi con il modo di vivere dell’uomo contemporaneo e con gli strumenti a sua disposizione, che è anche il motivo per cui utilizzo soltanto tecnologie di largo consumo civile o industriale. Più specificamente, è un tentativo — non il primo, nella storia dell’arte — di integrare nell’immagine la dimensione del tempo: nel mio caso, attraverso la trasformazione dell’artista in una sorta di broadcaster che emette un flusso continuo di bit informativi da ricomporre dall’altro capo della rete attraverso Terminali Artistici Remoti che ne restituiscano il potenziale artistico e poetico. In qualche modo ho realizzato in pittura la rivoluzione che Nicolas Negroponte ha perfettamente inquadrato come uno dei paradigmi della nostra epoca digitale e digitalizzata: il passaggio dall’atomo al bit.

Per aiutarci a capire meglio, puoi spiegarci le differenze — tecniche e di poetica — tra una videoinstallazione e i quadri elettronici?

Speravo in questa domanda, perché la differenza è sostanziale. Il system non è uno schermo su cui scorrono delle immagini: quello si può fare con Power Point, lo facciamo tutti, ma non è arte. La tela elettronica è “il pensiero di una superficie”, una specie di membrana che diventa area di un colloquio e di relazione. In questo luogo a infinite dimensioni si materializzano le icone pittoriche che l’artista crea proprio perché si possa fruirne attraverso le tre viste dell’uomo suggerite dalla Scrittura: quella degli occhi, quella della mente e quella del cuore. Si tratta di quadri che devono essere accesi, che utilizzano energia per funzionare, sono veri e propri computer che si interconnettono usando la rete delle reti dei quali è innervato il nostro mondo attuale. A seconda dei casi e degli accordi con la committenza il flusso può essere diversamente visualizzato con una sequenza di icone che esplorano un tema o genere specifico — come nei miei Landscapes — oppure che fanno parte di un ciclo intorno ad un soggetto.

 

Mi sembra di intuire che ci sia un aspetto relazionale più marcato rispetto alla videoarte, un aspetto quasi performativo…

La differenza è a un tempo più intuitiva e più profonda. Sicuramente, c’è tutto un campo da esplorare nel rapporto con il committente, ma la cosa davvero interessante rispetto alla videoarte è un’altra. Nella videoarte possiamo fare sostanzialmente quattro cose: andare avanti, andare indietro, più lenti e più veloci — che è quello che fa Bill Viola in modo eccezionale e molto seducente. Nel video però, ogni fotogramma ha lo statuto ontologico di “frame”, non di immagine finita. Nel System è diverso perché interagiscono tra loro non singoli fotogrammi, ma icone con identità e dignità di immagine dove in ognuna si manifesta l’eterno presente. Si esce insomma dalla trama della narrazione e si osserva invece un “oggetto mentale” che ti sorprende e sospende: si intuisce subito che non è un video, ma non per quali motivi, subendo uno spaesamento percettivo mentre il quadro cambia pur rimanendo fedele a se stesso.

 

In questo senso sono presenti anche aspetti performativi e interattivi, pensi siano di second’ordine?

Il System è un nuovo media artistico veramente complesso e pieno di nuove possibilità espressive, direi che l’aspetto performativo è presente ma da utilizzare e sottolineare in specifici progetti dove può assumere valori fondanti. Rispetto all’arte interattiva in genere sono piuttosto sospettoso perché dietro l’angolo è sempre in agguato quello che chiamo “effetto flipper”. Molte opere sono pensate con meccanismi relazionali molto schematici per cui a ogni azione del fruitore corrisponde più o meno meccanicamente una “maraviglia” atta a stupire ma sempre uguale a sé stessa. Se si esagera, ed è molto facile farlo, si ha un effetto poco artistico e molto vicino alle reazioni automatiche rilevate da Pavlov… scusa l’ironia.

 

Insomma, non è una “realtà aumentata”. 

Esatto! La “realtà aumentata” è un concetto divertente e molto commerciale, certamente utilissimo nelle nuove categorie dell’intrattenimento. Mi chiedo spesso quale sia la profondità della realtà, e quando penso che “l’infinitamente piccolo sia anche infinitamente lontano” mi sento ubriaco dell’infinito nelle piccole cose. In una spiaggia non c’è un granello di sabbia uguale a un altro, in una nevicata un fiocco di neve che non possa chiamarsi per nome senza essere confuso con un altro… Cosa c’è ancora da aumentare senza che la realtà si trasfiguri in sogno deforme o addirittura incubo?  

 

Mi piacerebbe tornare al cenno che hai fatto sull’utilizzo di tecnologie di massa. 

Uso solo tecnologie disponibili a tutti perché, come ti dicevo, mi interessa riflettere sulle abitudini del mio tempo. L’artista tecnologico è come il cowboy di un rodeo, deve domare questo cavallo che è la tecnologia senza farsene disarcionare. Quello che nasce è una nuova consapevolezza artistica, che nelle riflessioni fin qui fatte ho chiamato “Sintonia Modale”.

 

È il concetto per cui l’avvento di una nuova tecnologia pone inconsapevolmente una nuova categoria mentale: prima che esistesse il frigorifero la spesa andava per forza fatta tutti i giorni.

Esatto, proprio così! Si tratta di categorie mentali da imparare. Del resto, chi della mia generazione non ricorda gli anziani parlare al telefono gridando? L’altro era lontano, e non riusciva a entrare loro in testa che non serviva urlare perché, anche se lontani, lo strumento li avvicinava a portata di voce. La Sintonia Modale è quella capacità di entrare in sintonia con il mezzo espressivo specifico che si sta utilizzando. È una capacità che l’artista ha sempre avuto e che deve avere, ma che in questi tempi e con queste tecnologie si pone in maniera più perentoria. Per esempio, che differenza c’è tra vedere Odissea nello spazio al cinema o sul tablet? O tra vedere una partita sul maxischermo in piazza e vederla sul telefonino incolonnati in autostrada? Si direbbe che il contenuto è lo stesso… Ecco, da artista io mi interrogo, come esempio paradossale, se oggi non sia possibile concepire e realizzare un’opera che sul telefonino sia grande e al cinema patisca una riduzione nelle qualità fruitive essenziali. Si può fare se si coltiva una “Sintonia Modale” nativa con il medium usato, se cioè l’opera viene concepita dall’inizio per quello specifico mezzo. È non si tratta di precisione tecnica ma è piuttosto di un atto di coscienza progettuale e ideativa. Si è sempre fatta questa attenzione ma oggi è tanto più necessaria perché uno non creda di fare un quadro a olio, fotografarlo bene, metterlo su un monitor e aver fatto un quadro elettronico. L’artista che intende usare la tecnologia deve maturare e coltivare empatia con essa: non tanto per difendersene, ma per sfruttarne tutte le potenzialità. Lavorare con la tecnologia non è semplicemente un aiuto o una protesi, un prolungamento delle nostre capacità ma un’azione che forma il mondo nel tempo presente. Nell’ottica di un credente è la possibilità che Dio offre all’uomo di collaborare alla costruzione del Regno. Grazie al beato Paolo VI questa riflessione, dopo un lungo e buio periodo, è stata ricordata anche a noi artisti del presente. Grazie per le tue domande.

 

 

Con l’intervista a Davide Coltro riparte “Overlook”, pagina di approfondimento a mezza strada tra patrimonio culturale e tecnologia a cura dell’azienda torinese Heritage-srl.

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