“Ein feste Burg ist unser Gott…”: “Una fortezza indistruttibile è il nostro Dio, / uno scudo sicuro e un’arma potente, / egli ci libera da ogni pena / che ci abbia colpito nell’ora presente…”. Sono le memorabili battute di esordio del più celebre inno composto da Martin Lutero per il canto delle assemblee di fedeli. Lo concepì ispirandosi al salmo 45, agli inizi del 1521, alla vigilia di sottoporsi al giudizio dei prìncipi del Sacro Romano Impero riuniti nella dieta di Worms, sotto la presidenza di Carlo V d’Asburgo, dove Lutero rifiutò di abiurare le sue tesi, già condannate dal sommo pontefice, esponendosi così al verdetto finale che lo mise al bando come nemico della fede comune.



La parole del canto, subito tradotte in musica su una melodia ugualmente attribuita a Lutero, sono l’ardito squillo di tromba di un leader in ascesa, attaccato con orgoglio a una verità che riteneva sfigurata nel tiepido conformismo di una cristianità spesso solo di facciata. L’invocazione rivolta dal monaco riformatore a colui che è nostro “rifugio e forza” ci appare ancora intrisa del carico di violenta fierezza con cui le due parti in causa si stavano da alcuni anni misurando, in un duello senza esclusione di colpi, nel cuore dell’Europa del maturo Rinascimento. 



La lotta aveva come posta in gioco niente di meno che l’autenticità radicale della fede, divenuta oggetto di aspra controversia. Anche sotto le sue formule più tradizionalmente devote, la preghiera qui diventa canto di battaglia, teso a radunare un popolo al seguito di un’identità che solo allora stava cominciando ad abbozzare i suoi nuovi lineamenti. 

Il grido che si innalzava ci reimmerge in una guerra di idee che ha aperto ferite mai più in seguito risanate. Ma proprio dentro questo turbine di scontri durissimi, presto bagnati dal sangue degli eserciti, non si può non percepire l’affioramento incredibile di un’ansia di assoluto, di un bisogno di infinito, nutriti da una nostalgia per la purezza e la grandezza del divino da cui la storia dell’uomo rischiava di divorziare decadendo pericolosamente verso il basso. Chi non resterebbe colpito dal sentimento profondo di abbandono alla potenza amorosa del Signore della storia, il vero “uomo giusto, scelto da Dio stesso”, Gesù Cristo, l’unico destinato a rimanere in piedi come dominatore resistendo agli assalti del male, a cui spingono a guardare con totale fiducia le strofe successive del canto di Lutero? È Lui, si insiste, che vuole portarci alla “salvezza” e introdurci in un regno che per forza “dovrà essere nostro”, termine ultimo di lucida speranza, tenuta viva nella convulsa frenesia di un’impresa dall’esito ancora molto incerto.



La stessa mescolanza contraddittoria di fervida pietà, di amore per Cristo e di tenacia accanita nella difesa delle novità del proprio punto di vista teologico, si può ancora oggi sperimentare mettendosi in ascolto di un altro tra i più toccanti canti di chiesa luterani, di poco posteriore a quello appena citato. È l’inno pasquale che celebra il frutto dei sacrifici della passione di Cristo, la porta stretta che dall’alto della croce, attraverso il dono dell’amore misericordioso che ha “arso” la carne del Salvatore sul legno del Golgota, ha generato il beneficio prodigioso della risurrezione: un testo rifinito nel 1524, Christ lag in Totesbanden (“Cristo giacque nei legacci della morte, / a lei consegnato per i nostri peccati. / Ma è poi risorto / e ci ha portato la vita”), lo stesso che quasi due secoli dopo, all’inizio del Settecento, Johann Sebastian Bach riversò in una nuova versione musicale a più voci, consegnandoci una delle sue più splendide cantate sacre (BWV 4), punteggiata dalle squisite variazioni trionfalmente gioiose degli Alleluia che chiudono ogni singola strofa.

Eppure, tutte queste stupende creazioni dello spirito religioso, ricamate nell’intreccio dei rimandi continui che legano tra loro testo sacro, preghiera liturgica e musica corale, davanti alle quali ancora oggi non si può non rimanere commossi e ammirati, hanno una precisa paternità. E questa le riconduce al mondo che, fino a un recente passato, veniva dipinto con le fosche tinte dell’eresia da combattere senza tregua e da respingere al di fuori della recinto della vera Chiesa di Cristo (ma vi è da notare che l’ansia della demolizione aggressiva non cessa tuttora di contagiare la nostra truculenta proliferazione contemporanea di blog e polemiche giornalistico-editoriali in stile da antica crociata). 

Anzi, qui non navighiamo neanche nel mare fluttuante delle idee sospette, ai margini delle dottrine respinte dall’autorità della Chiesa di Roma. Siamo messi di fronte alla mente che più di tutte quelle dottrine ha aiutato a far emergere, davanti alla più diretta espressione culturale della primitiva fede evangelica, solo più tardi sistematizzata nelle Chiese protestanti del cuius regio, eius religio, a seguito dello sviluppo inaugurato proprio dalla propaganda contagiosa delle idee luterane, dagli anni intorno al 1520 in poi.

Da allora, sono trascorsi cinque secoli. Le cose sono totalmente cambiate e per noi, oggi, se vogliamo essere figli del nostro tempo, non delle logore schermaglie di una cristianità che non esiste più nei suoi ferrei schemi di disciplina militaresca, si impone la necessità di prendere posizione di fronte a un dilemma molto semplice: o assecondare la lezione magistrale dell’esperienza, che ci aiuta a recuperare lo spirito autentico veicolato dai frutti della riforma combattuta dal centro romano e a intenderne il senso di fondo, oppure rimanere abbarbicati alle logiche del rifiuto intransigente e della rottura di ogni comunicazione reciproca, scaturite dalla violenza delle contese che lacerarono il tessuto del cristianesimo moderno agli inizi del suo tortuoso cammino. 

Parlare oggi di Lutero, a cinquecento anni dall’inizio della sua dura polemica religiosa del 1517, non può più restare confinato negli argini angusti dell’odio teologico che ha segnato per secoli la controversia tra Chiese rivali che si proclamavano unica manifestazione autosussistente della vera religione di Cristo, respingendo le altre forme di cristianesimo nel regno oscuro dell’errore diabolico. Poi l’avanzata della secolarizzazione della società moderna. Il lento declino del modello di Stato confessionale basato sull’alleanza di trono e altare e ostile all’infiltrazione del diverso. Il rimescolamento delle fedi e delle pratiche religiose nel pluralismo contemporaneo. Prima ancora: la maturazione di un nuovo sguardo tollerante tra seguaci della medesima coscienza cristiana, che ha trascinato con sé i progressi della storiografia religiosa e della riflessione teologica dell’ultimo secolo, con le sue spinte di carattere ecumenico, il bisogno di convergere intorno ai punti essenziali di coesione rivedendo o oltrepassando i motivi di conflitto che continuano a rendere impraticabile il ripristino della comunione ecclesiale. 

Tutti questi sono fattori che spiegano come si sia potuti arrivare finalmente a deporre le armi della battaglia, per sostituire al meccanismo deformante dei pregiudizi reattivi la ricerca della conoscenza vicendevole, il privilegio dato all’appianamento delle divisioni, fin dove possibile il ritorno a una almeno parziale unità anche nella distinzione delle gerarchie e delle tradizioni di pensiero o di forme liturgico-sacramentali, cioè nel quadro di una “pluriformità” o di una “diversità riconciliata” (Cullmann), che non pretenda più di inglobare le differenze semplicemente riassorbendole in un’unica obbedienza appiattita sulla riaffermazione del principio di autorità.

Già nel corso del Novecento i muri dell’ostracismo e dei desideri di riconquista sono stati ampiamente erosi. Si sono raffreddati i rancori delle condanne incrociate e si è cominciato a guardare al mondo della Riforma nordeuropea con uno sguardo più comprensivo, per cercare di cogliere le ragioni che l’hanno mossa dal suo interno, così come, dal punto di vista protestante, è avvenuta la stessa cosa nei confronti della tradizione cattolica. Uno strumento prezioso per introdursi in queste nuove dimensioni del dialogo attento al rispetto della molteplicità e al bene dell’integrazione reciproca, è ora offerto dall’agile pamphlet del cardinale Walter Kasper, decisamente orientato a favore di una impostazione serenamente costruttiva, rivelata fin dal chiaro titolo programmatico: Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica (Queriniana, 2016, p. 76).

Snodo essenziale è la risoluta scommessa a favore del lato sorgivo del pensiero luterano, reinserito nel contesto dei fermenti riformatori che attraversavano l’intera cristianità coeva: Lutero non come il fondatore di un nuovo cristianesimo alternativo, ma come il profeta che ha rimesso al centro del dibattito pubblico il problema della salvezza, cioè della ricostruzione del legame tra l’uomo e Dio. Il suo pensiero dominante è stato l’accesso alla grazia della misericordia di Dio che libera l’uomo dal peso del male e della colpa, “giustificandolo”.  

Risalendo alle fonti di ciò che è più originariamente costitutivo di ogni autentica teologia cristiana, senza timore di contrastare le tendenze dualiste del razionalismo moderno, per lui l’abbandono alla giustizia di Dio che si irraggia sul mondo a partire dalla croce di Cristo si impose come la chiave di una proposta globale di rinnovamento che esigeva penitenza e conversione, chiamando tutta la “cattolicità” della Chiesa esistente, non una singola parte separata, a ritrovare la strada della sua più autentica “forma” originaria. 

La frattura che si produsse fu la sconfitta di questa bruciante aspirazione. Il rifiuto della negoziazione, la rapida radicalizzazione dei fronti di dissenso e la demonizzazione feroce dell’avversario, da entrambe le parti della barricata, fecero terra bruciata di ogni possibile compromesso. Scivolando nella contrapposizione muro contro muro, le idee religiose nemiche si irrigidirono divaricandosi progressivamente, trasformandosi in due blocchi rivali sostenuti dall’alleanza del potere. 

Non si riuscì, allora, ad accettare la provocazione di una verifica che avrebbe potuto portare ognuna delle fazioni in lotta a interrogarsi sulla serietà della sequela alla fede di Cristo e sulla limpidezza della testimonianza che i cristiani erano chiamati a darne nel concreto della storia comune. 

Chiusa la stagione dell’intolleranza escludente, nella nobile scia di un abbraccio veramente “cattolico” all’altro da sé, si può tornare al punto di origine, cioè a riscoprire l’invito che viene dalla sfida di tutti i grandi riformatori del primo Cinquecento: quella di rimettere al centro di ogni struttura di Chiesa e di ogni tradizione di cristianesimo incarnato nella vita del mondo l’amore per il volto vero di Cristo, oggi sempre più bisognoso di ritrovare, come forma primaria di espressione, la mendicanza della misericordia che sola può riscattare la fragile inconsistenza della natura umana, portandola al suo compimento totale. “Il giusto vivrà per la sua fede”: non è rivoluzionaria anomalia luterana, ma il Nuovo Testamento, erede, in questo, dell’Antico.