Padre Romano Scalfi è andato in cielo, il giorno della venuta in terra del Signore; e già questo è un grande mistero e una grande consolazione. Dire che lascia dietro di sé un’enorme eredità è vero, perché Russia Cristiana è sicuramente una realtà il cui ruolo e la cui testimonianza sono ormai indiscutibili. Stavamo ancora pensando a un comunicato in russo, quando la rete si è riempita dei commenti e delle commemorazioni dei primi amici russi ai quali avevamo dato la notizia. La grande poetessa Ol’ga Sedakova scriveva, a meno di tre ore dalla morte del padre: “pochi come lui hanno così amato la Russia e la sua tradizione cristiana, e hanno fatto tanto perché fosse conosciuta nel mondo”. È vero, l’eredità che padre Romano lascia è enorme.



Ma dire tutto questo non basta, perché padre Romano lascia qualcosa di più: lascia una miriade di persone che gli devono tutto.

Io stesso devo tutto a padre Romano, come moltissimi, ma come tutti in maniera unica; proprio lui del resto amava dire che Dio crea gli unici, mentre è il diavolo che fa le copie.

A lui, dunque, devo tutto quello che mi costituisce.



Grazie a padre Romano, innanzitutto, ho ritrovato la fede, come molti l’hanno ritrovata, ma come qualcosa che era proprio per me; a Legnano, in una sera nebbiosa, in cui cercavo le vie per la rivoluzione, lui mi fece scoprire un’altra Russia, da amare senza paura: quella di un Cristo capace di trasfigurare tutto il mondo, dove non c’era bisogno di sognare un futuro radioso perché il presente era già tutto pieno di senso; un senso che passava attraverso le ingiustizie, le difficoltà e il dolore, certo, ma non era per questo meno reale, concreto ed efficace.

Grazie a lui, poi, ho trovato un indirizzo alle mie ricerche e ai miei studi: mentre tanti ancora si perdevano dietro contrapposizioni astratte (destra e sinistra, conservatori e progressisti, fede e ragione) lui ci faceva scoprire nella fede una potenza di unità e di significato che semplificavano tutto, senza sollevarci un istante dall’impegno del lavoro e senza annullare la difficoltà dei problemi e delle divisioni; semplicemente, la fede, come Cristo, diventava “luce della ragione” (come si canta nel tropario di Natale!) e in quella luce la ragione poteva funzionare meglio, risolvendo i problemi senza annullare il mistero della vita: “i concetti di Dio creano gli idoli, solo lo stupore afferra qualcosa”, continuava a ripeterci, nei seminari che teneva in Università Cattolica insieme a don Giussani. Ed era bello vederli discutere chi per primo avesse suggerito all’altro quella frase di Gregorio di Nissa. E poi partivano con una serie di citazioni che ci lasciavano senza parole tanto erano belle e capaci di ricomprendere ed esaltare tutto il nostro desiderio di verità: mentre scoprivamo la vecchia tradizione, era tutta una nuova Filocalia dell’Oriente e dell’Occidente moderni, da Leopardi, Péguy e de Lubac a Dostoevskij, Solov’ëv e Berdjaev. 



Grazie a padre Romano, in un mondo che pretendeva di risolvere tutto e produceva più crisi di quelle che credeva di superare (erano gli anni della contestazione e della fine dei grandi sogni), verificavamo che quella ragione, illuminata dalla fede, dava luce alla nostra vita proprio facendoci scoprire il mistero che la rendeva inesauribile, irriducibile. E non era un discorso o un proclama, ma il racconto della resistenza nei campi di concentramento e nelle prigioni sovietiche, cioè il racconto di come era possibile vivere anche nell’abisso della più radicale negazione dell’umano.

Grazie a lui, in un mondo che viveva di comunismo e anticomunismo, ho scoperto che il problema non era opporsi o schierarsi, ma amare e proporre un luogo in cui vivere. Ripensandoci, dopo tanti anni, la cosa evidente è che il problema dell’anticomunismo non fu mai centrale per padre Romano, a dispetto di quanto dicevano tanti critici di Russia Cristiana: non che avessimo anche solo un po’ di simpatia per il sistema sovietico, ma con l’ansia di rivoluzione che bruciava la mia generazione, se solo avessi sentito quello come movente principale probabilmente non avrei neanche iniziato a frequentare padre Romano. Il fatto è che altro era quello cui lui teneva in prima battuta: non certo la ricerca di un nemico, ma un luogo in cui vivere. Ed era, senza alcun dubbio, esitazione o camuffamento, la Chiesa, luogo della presenza di Cristo; ancora una volta attraverso tutte le divisioni e i peccati, perché le Chiese erano divise, ma padre Romano non ce le ha mai fatte percepire tali: le differenze c’erano ma gli ortodossi erano i nostri fratelli, i loro martiri erano i padri della nostra fede ritrovata. E così il problema dell’unità non era certo quello della conquista o della conversione dell’altro, ma quello della propria conversione e della testimonianza: che i cattolici diventassero sempre più profondamente cattolici e gli ortodossi divenissero sempre più profondamente ortodossi e poi l’unità già donata in Cristo sarebbe diventata visibile, continuava a ripeterci padre Romano.

E ha continuato a ripeterlo sino alla fine, anzi a viverlo sino alla fine. Celebrava tutti i giorni, ma ormai predicava solo la domenica, e ha continuato a farlo fino alla prima domenica di Avvento, quando ha voluto a ogni costo scendere in cappella, nonostante la febbre alta; e il tema è stato quello di tutte le prediche ormai da più di un anno: Cristo e la Sua Misericordia; quella domenica, però, con una sfumatura diversa e inattesa, centrale non era stato l’Avvento, ma la seconda venuta come presenza definitiva.

Così gli ultimi giorni; ha detto messa sino alla fine, anzi alla fine, gli ultimi giorni, non diceva più messa, era la messa: la presenza di Cristo è sempre reale nella messa, ma in lui era diventata così debordante che la sua persona era tutta, anche fisicamente, nel sacrificio eucaristico, con un affanno e un dolore che erano davvero come quelli di Cristo, ma con un bisogno, e poi una pace, indescrivibili, come se quella fosse l’aria che gli permetteva di vivere, quando ormai faceva sempre più fatica a respirare.

Cristo ormai era tutto e questo è tutto per un cristiano.