“Sorelle, non ci illudiamo: la felicità è molto lontana”
(Margarethe von Trotta)

L’interesse per la figura di Hildegard von Bingen è enormemente cresciuto negli ultimi anni, sospeso tra puntuale ricerca filologica (la santa di Bingen è un vero diluvio di benedizioni per linguisti, musicologi, storici della scienza e del simbolismo, e persino crittografi!), sporadiche escursioni teologiche (va detto, in parte per un quasi paradossale bisogno di “normalizzare” un dottore della Chiesa piuttosto esplosivo), ed una vasta corrente che, in mancanza di meglio, potremmo chiamare artistica ed inevitabilmente anche un po’ new age. 



Corrente che non è affatto da trascurare perché mostra forse i limiti dei primi due approcci alla figura della mistica medioevale e ne libera lo scarto incommensurabile, l’eccedenza rispetto alle letture canoniche e alle interpretazioni contemporanee. Esemplari sotto questo punto di vista sono le epifanie cinematografiche di Sonia Bergamasco in “Niente è come sembra” di Franco Battiato del 2007, e la Barbara Sukowa delle miniature proto-femministe in “Vision” della Von Trotta, del 2009. Anche le proposte musicali dell’opera della Santa potrebbero dividersi tra queste due grandi categorie (filologici vs simbolici), ed è raro trovare un’esecuzione in grado di coniugare fascino e rigore (o detto altrimenti, i lampi di genio ed il capriccio melodico innestati su strutture fortemente ripetitive e stereotipate. Personalmente consiglio la versione di Jeremy Summerly e della Oxford Camerata per Naxos). 



E’ quello che fa Costanza Cavalli in Fuoco verde, piccolo e prezioso libro per la collana “Vite esagerate” della San Paolo. In questa misteriosa unità non c’è alcuna intenzione ideologica, nessuna forzatura teorica; la stessa autrice ammette che il libro è nato quasi per caso, una serie di circostanze legate ad aree di affinità e competenze. E qui le competenze sono ideali, perché la Cavalli, classe 1992, diplomata in arpa — collega di sezione in orchestra del suo personaggio, che suonava il salterio —, laureata in lettere moderne, giornalista, ha la possibilità di fondere l’attenzione storico-filologica e le possibilità plurali dell’invenzione musicale. Ed un talento naturale per la scrittura.



Biografia romanzata, si sarebbe detto un tempo. Se non che i due aspetti, l’invenzione e la storia, sono qui fusi a perfezione, e diremmo che l’uno illumina l’altro. Un paragone quasi immediato è con Il nome della rosa di Eco, ma è ingannevole. L’unico punto di contatto tra la giovane autrice e lo studioso scomparso sembra la comune convinzione che la Regola di San Benedetto nasconda più meraviglie e misteri di quante non ne dichiari. Per il resto, il ‘300 di Eco è un giallo ideologico sin dall’inizio, e la storia di Adso-Watson si inscrive nella moderna tradizione del romanzo di formazione. In Fuoco verde l’umile voce di Clementia, sorella verosimile ma inventata che segue Hildegard nella vita monacale, è più vicina alla cronaca medioevale che alla confessione personale, e dove questa fa capolino acquista forza e rende i contorni storici sfumati, moltiplicandone le prospettive, aprendo domande e sottotesti appena sussurrati. 

Il romanzo è strutturato in tre movimenti musicali (andante, presto, allegro moderato), e utilizza come leitmotiv il mistero del giovane scomunicato, anche qui una storia inventata ma che illustra la capacità di Hildegard di mettersi in conflitto con le autorità religiose e politiche del tempo, a cominciare dalla corrispondenza infuocata con il Barbarossa. All’interno di queste coordinate e ritmi, i fatti della vita di Hildegard: nata nell’aristocrazia renana nel 1098, entra in convento a otto anni, come si conviene ad una decima figlia, e si forma sotto Jutta di Sponheim nel convento di Disibodenberg, dove prenderà i voti dalle mani di Ottone di Bamberga. Per obbedienza, nei primi quarant’anni della sua vita evita di parlare delle sue visioni, delle elaborazioni che ne trae e che la guidano in una singolare appropriazione dei testi di Dionigi l’Aeropagita e di Agostino. 

E’ nella seconda metà della vita che si pongono le basi del mito della Magistra di Bingen. Crea infatti il proprio convento a Rupertsberg vicino a Bingen, alla confluenza della Nahe nel Reno, con venti monache di nobile nascita. Somiglia pochissimo alla frugale e timorata badessa medioevale. Il monastero viene visto non come isolamento ma come centro propulsore di  predicazione. E l’attenzione al sapere, alla musica, all’eleganza formale (ed ai gioielli: anche qui la mente va ad una bellissima e dotta pagina sui gioielli de Il nome della rosa) sembrano incarnare una versione elitaria ed estrema di benedettinismo. Ma quello che presto diventa leggenda per gli altri, è solo inflessibile dedizione alla Verità. Come spiega il bibliotecario Volmaro a Clementia: “Vedi, Ildegarda non cerca di farsi passare né per indovina né per profetessa (…) non vende nulla; piuttosto sono quelli che le stanno attorno a vendere l’idea che lei abbia qualcosa di irresistibilmente attraente. L’abate, il vescovo, tutti. A tutti conviene avere appresso Ildegarda. A lei questo dà noia, perché, quando viene colpita dalla luce, tutto quello che fa è solo quello che deve fare (…).Volmaro chiuse la risposta con un moto di fastidio, ed io mi feci piccola come un topo”. Per avere un’idea dell’autorità della Santa di Bingen, alcune sue riflessioni furono lette da Eugenio III al Sinodo di Treviri del 1147.

La “luce verde” che dà il titolo al libro fa riferimento ad uno dei temi più affascinanti di Hildegard, la Viriditas, il verdeggiare della forza vitale che tutto anima ed è la connessione tra microcosmo e macrocosmo, tra Dio, l’uomo e la natura. Era già noto il tema dell'”homo quaedammodo omnia” di Gregorio Magno e diffuso quello dell’uomo zodiacale, ma nella luce verde c’è un elemento nuovo. Queste proporzioni e rapporti non sono geometrie fissate una volta per tutte, come accadrà poi nell’uomo vitruviano di Leonardo, ma si rinnovano costantemente o si essiccano a seconda delle scelte umane. 

Per questa impervia saggezza passano i segreti della salute e della malattia del corpo fisico come del corpo sociale. Ed è sotto questa luce che si comprendono le battaglie di Hildegarda con i poteri del tempo, all’interno di una visione della Storia che ne cerca il senso dentro i cicli della caduta, dell’erranza, dove tra giudizio e redenzione si svolge il dialogo tra Dio e la sua creazione.

Fuoco verde riesce dunque a compiere il piccolo miracolo di restituirci Hildegard von Bingen nell’esattezza storica e nel suo mistero. Ed è anche la promessa di una nuova scrittrice che sceglie come epigrafe Emily Dickinson: “Non conosciamo mai la nostra altezza/ Finché non siamo chiamati ad alzarci/ E se siamo fedeli al nostro compito/ Arriva al cielo la nostra statura”.

 

Ignazio Licata

 

Costanza Cavalli, “Fuoco Verde. Ildegarda di Bingen, donna del mistero”, San Paolo edizioni, 2016.