Orgogliosamente legata alla Sicilia, e drammaticamente ferita dai suoi lati oscuri, ha vissuto una vita complicata di rottura con tradizioni e obblighi inaccettabili per la sua libertà, come testimone della giustizia, della voglia di riscatto, della bellezza di una terra bellissima e amata. Dal suo lavoro a L’Ora, prima donna fotografa assunta in un giornale, alle personali nei principali musei del mondo, Letizia Battaglia è una donna vera, coraggiosa, cocciuta e capace di contaminarsi, di relazionarsi con simpatia con tutto e tutti. A 81 anni ha lo spirito e la passione che molti ragazzi possono invidiarle. Al Maxxi, il museo delle arti moderne di Roma, dal 25 novembre al 17 aprile è possibile vedere le sue opere: “Letizia Battaglia. Per pura passione”. Si racconta a Soul oggi alle 12.15 e alle 20.30.
Custode della memoria di un pezzo di storia italiana, Palermo è la protagonista numero uno delle sue immagini: città amata e odiata.
La mia Palermo fa puzza e questo mi piace molto. È la Palermo che io amo, quella del centro storico: quella dei quartieri “bene” non mi interessa, non ci vado, non ho amici da quelle parti. Palermo puzza splendidamente, è il motivo per cui non riesco a lasciare questa città, la sua potente decadenza che tenta di rialzarsi continuamente. Palermo è affascinante per me, potrei vivere a New York, Parigi, Roma o Napoli, ma vengo sempre attratta da Palermo. C’è del bello, una storia dietro di noi che è importante e che bisogna rispettare. C’è una lotta nel presente da anni che forse non sapete, forse taciuta e non amata: la nostra bellissima vita molta gente la vive lottando, per cambiare una realtà che spesso non è stata voluta, ce la siamo trovata per colpa di governi che hanno preteso per decenni che fossimo un bacino di voti. La povera Palermo è stata gestita da politici mafiosi, e noi come potevamo reagire se un potere politico era lì a volere che fossimo solo numeri? La mafia era lì per portare voti a Roma.
Si è tanto arrabbiata con Palermo da fuggirla, ma ha resistito solo due anni.
Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio ad un certo punto ho detto basta e sono andata a vivere a Parigi, in una stanza che affittava un mio amico. Fuori dalla Sicilia, dall’Italia, perché avrei potuto finire la mia vita tanto era forte il dolore. Ho fatto bene a restarci, lontana da Palermo: avevo bisogno di nutrirmi di pace.
La protagonista numero due del suo lavoro è la donna: in particolare le bambine, che non ridono mai, serie davanti alla durezza della vita, con uno sguardo intenso da intimorire.
Mi sono resa conto da poco che tutte quelle bambine sono io. Io fino a dieci anni sono vissuta a Trieste ed ero felice lì, prendevo la bici e giravo la città da sola. Poi siamo rientrati a Palermo, era appena finita la seconda guerra mondiale. Io cominciai ad uscire come prima, ma successe qualcosa che mi segnò per sempre. Un uomo mi fece dei gesti osceni, lo raccontai ai miei e mio padre mi chiuse in casa e non mi fece uscire più da sola, persi totalmente la libertà. Le mie bambine sognano un futuro, sognano l’amore, la libertà, la bellezza e poi invece si trovano bloccate, segregate, vietate. Le mie bambine sono io, oggi lo so: sono già grandi, gravi, ma hanno uno sguardo in cui è racchiuso il sogno. Sono serie nei confronti del mondo e della vita, sono bambine che non tradiscono.
Per quanto sia riduttivo definirla com’è usuale “la fotografa della mafia”, è vero che le sue foto sono gli atti dei più famosi processi di mafia, e lei ha saputo documentare con delicatezza l’orrore di anni di sangue quotidiano.
“Fotografa della mafia” è un titolo insopportabile. Io ho fatto la cronista per diciannove anni per il giornale L’Orada freelance, poi sono andata a Milano perché dovevo scappar via da Palermo. Ho iniziato a proporre degli articoli, ma non andavano bene senza foto, per questo ho incominciato a fotografare. Poi L’Ora mi ha richiamata e sono stata felice di ritornare a Palermo. Fui la prima donna in Italia, nel 1974, a lavorare per un quotidiano: le fotografe sono sempre esistite, ma con un lavoro più calmo… In un quotidiano di una città come Palermo, in quegli anni particolari, bisognava correre, ma io non ho documentato solo la mafia; ho fatto di tutto, bastava portassi delle fotografie, 24 ore su 24. L’Ora è stata una grande scuola di giornalismo civile, le devo molto. Era un ambiente composito, c’erano i vecchi comunisti che avevano un certo tipo di formazione e poi c’erano i giovani, che oggi sono tra i più grandi giornalisti italiani. C’era comunque un fermento contro il fascismo, contro la mafia e contro la corruzione: in questa sono stata fortunata. Non ho fotografato solo io i morti di mafia, ma ho fatto delle esposizioni, per raccontare alla gente quanto era brutta, cattiva e sporca. Ma io veramente ho lavorato tanto anche sui matrimoni e i paesaggi. In questa mostra del Maxxi sono rappresentati tutti questi momenti. Io mi chiedo spesso: dove sono le foto degli altri fotografi, perché non le tirano fuori per raccontare cosa accadde in Italia? C’è una cronaca da raccontare, ieri come oggi.
Lei ha vissuto sempre il lavoro come impegno civile e responsabilità politica…
Io vivo in coerenza con tutto quello che faccio. Non posso separare la mia fotografia da come gestisco la mia vita, da come amo e da come mi vesto. L’impegno civile nasce dall’infanzia, quando percepii che c’era un’ingiustizia, che noi avevamo il parmigiano e la signora a fianco a noi no allora io lo rubavo a mia madre e glielo portavo. È una cosa nata con me. Io poi non ho mai considerato me stessa come artista, lo capisco solo ora perché nei musei chiedono le mie foto. Io mi sono mossa come persona, dovevo correre e non avevo tempo per pensare, ma amavo correre: mentre lavavo i piatti mi chiamava il giornale e io mollavo tutto e uscivo. Ho voluto essere una persona semplice, una vita senza vanità. Sono stata deputato, in Sicilia a tutti dicono “onorevole, buongiorno”, ma a me semplicemente “ciao Letizia”. Ho trasmesso questo e di questo sono orgogliosa.
Com’era considerata dai suoi colleghi uomini in tempi in cui non era facile affermarsi come donna in un certo mestiere?
Ho avuto colleghi maschi in studio con me ed è andata benissimo. È chiaro che ci sono stati dei problemi, però se ti imponi si fa, si riesce, senza troppe lamentele. La polizia mi impediva di fotografare certe situazioni, ma poi quando ho cominciato diventava imbarazzante e mi lasciavano passare. E poi ho trovato l’aiuto di Boris Giuliano che fu capo della squadra mobile, un meraviglioso “non più sbirro” che poi venne ammazzato. E’ stato sempre gentile con me.
Quanti sono stati i morti, gli amici che sono stati spenti dai Kalashnikov e dal tritolo?
Tante sono le persone che stimavo o che amavo che sono morte per colpa della mafia. Io non ho fotografato né la morte di Falcone, né di Borsellino, ma ero là. Mi dispiaccio oggi di questo: un fotografo deve fotografare ed è importante il suo lavoro come documento, come espressione personale, per lasciarlo ai posteri. Io, però, non ce la facevo più, per questo me ne sono andata.
Cosa pensa dell’esibizione della morte, della violenza propagandata sui media, sui social? Le vittime sgozzate dai fondamentalisti islamici dobbiamo mostrarle?
Dipende da come le cose vengono fotografate e portate a conoscenza. C’è una foto che io amo e amo la sua autrice, una donna che ha fotografato quel piccolo bambino profugo morto su una spiaggia turca. Pure in quel caso si parlò di scandalo. Perché? Devi fare vedere tutto, anche se è un pugno nello stomaco. Ci sono quadri in cui si mostra una decapitazione e sono nei musei, mi riferisco a tutte le Giuditte in giro per il mondo. Noi diamo delle testimonianze e dipende dalla fotografia se c’è rispetto o se c’è solo l’orrore della carne macellata. Un bravo fotografo non registra solo quello che vede, ma anche quello che ha dentro: è complicato, ma ci possiamo riuscire. Non è solo l’attenzione ai particolari, l’angolazione, ma soprattutto il sentimento che hai: cerchi di restituire la tristezza del fatto che vedi in un modo che conserva il rispetto.
E’ stata compagna di lavoro e amica dei maestri della fotografia mondiale. Ci racconti.
Ero molto amica di Josef Koudelka, abbiamo viaggiato tanto, siamo andati insieme col camper in Turchia, in Jugoslavia, nel nord Europa. Lui è meraviglioso, è stato un maestro che mi ha dato tantissimo e lo considero uno dei più grandi fotografi del mondo: è bello ed importante avere dei maestri. Me lo sono cercato io, lui doveva fotografare le processioni in Sicilia e mi telefonò perché doveva trovare ospitalità. Appena ho sentito chi c’era al telefono stavo per crollare a terra. Quando venne da me Koudelka guardò le mie foto, e dietro alle foto che gli piacevano metteva una K. Ne ho avute tante, di k, ma da quel momento io non ho più fotografato cose buone per un anno, perché essere sottoposti ad un giudizio di una mente così mi ha scosso e bloccato. E’ servito anche quello.
Lei si è sposata a 16 anni, ha avuto giovanissima tre figlie, poi se n’è andata, ha divorziato, si intuiscono ferite.
È complicato parlarne perché sono stati anni molto dolorosi per me. Avevo un padre geloso che mi aveva chiuso in casa, e da quel momento ho cercato sempre di andarmene. L’unica via allora, in quella terra e a quel tempo, era sposarmi, passare dal controllo del padre a quello del marito, un uomo che comunque mi amava. Non eravamo fatti l’uno per l’altro, io ero una ragazzina, ma questo matrimonio è durato tanto, anche in modo tragico.
E’ riuscita però con tempra indomita a ricostruire la sua famiglia, a tenere i legami, gli affetti, il nido.
Sono riuscita a stare vicino a mio marito, dopo vent’anni di separazione, nel suo ultimo anno di vita e di questo sono molto contenta: ho sentito affetto per lui come un fratello. Amo il perdono, amo capire come sono andare le cose, le ragioni di ciascuno e ho compreso infine che se avevo sofferto è perché lui non poteva fare diversamente da quel che era: non poteva capire una ragazza inquieta e piena di voglia di fare come me. È stato molto bello ricostruire la famiglia, ma dentro di me non l’avevo mai distrutta. Sono stata molto vicina alle figlie anche se una donna così inquieta qualche danno a loro l’ha fatto di certo. Sono sicura che qualcosa non è andata nel verso giusto come madre, ma l’amore è fortissimo e ci amiamo tutti. Poco fa mi ha chiamato dall’India mia figlia Shobha che è fotografa, per farmi gli auguri per tutto quello che dovevo fare. Poi ci sono Patrizia e Cisia, i nipoti, i pronipoti: è tutta una grande gabbia meravigliosa. I legami è meglio averli, anche se non sei più libero. Se hai un certo tipo di legame soffri, è una gabbia di impegno. Ma è una cosa bellissima, io me la sono presa tutta, mi ci sono infilata totalmente e con gioia.
Glielo devo chiedere, anche se è la domanda più banale: perchè ha sempre privilegiata il bianco e nero?
Perché il bianco e nero è bellissimo, i colori per me sono banali, non riesco a fare bene foto a colori e quelle degli altri non mi turbano molto, non mi conquistano. Il bianco e nero è più riservato, è più discreto, è più rispettoso della realtà. Se io avessi fatto a colori quello che ho fotografato sarebbe stato terribile: basta pensare al rosso del sangue dei morti ammazzati… Quando io faccio un ritratto in bianco e nero, ha la sua eleganza, la sua solennità: mi piace molto dare onore, quando entro in simbiosi con l’altro. Forse mi piace il bianco e nero perché sono all’antica, ho ottantadue anni e per me era una grande cosa, magari oggi la sensibilità è diversa.
Oggi sono tutti fotografi con i cellulari, sono tutti artisti, c’è una compulsività nel proporre alle platee tutti i momenti personali, intimi.
Tutti sono scrittori perché c’è la biro? Conta il progetto, la disciplina, l’idea. Fare fotografia non è solo scattare, è interpretare, è entrare nell’altro e con l’altro in quello che è e quello che vuole, inventare un altro o capirlo. Guardiamo a Facebook, la foto può raccontare di un bel paesaggio ma la bravura non c’entra niente. Non c’è mediazione, è una cosa superficiale. La fotografia è qualcosa di più e i fotografi che rimangono sono quelli che hanno qualcosa da dire, così come accade per gli artisti. Oggi fotografo senza la disperazione che avevo da giovane. Io ho cominciato a Milano e ho avuto la possibilità di fotografare Pasolini, fu protagonista delle mie prime foto, e vennero bene. Io non ho studiato nulla di fotografia e tecnica, e quando vengono, vengono bene da sole. Non capisco niente di tecnica e tecnologia, mi sembrava insopportabile vedere i fotografi maschi che comparavano la strumentazione, i teleobiettivi e altre performance formidabili delle loro macchine fotografiche. Io avevo una macchina semplice e sono riuscita a fare foto che quando ho esposto a New York mi han chiesto se le avessi fatte con una macchina di alto livello.
E’ suo il progetto a Palermo del Centro di Fotografia, un’occasione sperimentale, un luogo in cui ” i ragazzi possano poter vedere fiorire la bellezza”, ha detto.
Io sono stata una fotografa sola. Non c’era una galleria fotografica, non c’era niente. I giornalisti e i direttori dei giornali non capivano niente di fotografia e pure oggi è così, stanno distruggendo i giornali per questo motivo. Pensiamo invece al mio Centro che si sta per realizzare, in un padiglione enorme dei primi del ‘900. Ci sono due gallerie grandi, una per i grandi eventi e una per i fotografi emergenti. Poi una stanza con l’archivio della città di Palermo, dalla fine dell’800: chiederò a tutti di fare una raccolta delle foto che hanno fatto, che posseggono, a tutti i fotografi del mondo chiederò di regalarmi una foto se sono passati dalla mia città. Ci sarà fotografia ma non solo, poesia, musica, impareremo tutti insieme. Ho solo un po’ di fretta perché ho 82 anni, non so cosa mi aspetti. Non è paura, mi chiedo se avrò la forza e l’energia, e fino a quando. Ma la realtà è meravigliosa, basta saperla guardare, a tutte le età.