Tutti conosciamo il celebre racconto di Borges, “Pierre Ménard, autore del Chisciotte”. In quella caustica narrazione, Borges finge di essere l’autore di un devastante necrologio che ricorda la vita e l’opera di uno scrittore appena deceduto. Ci rendiamo conto così delle sue avventure e soprattutto capiamo che era un pessimo autore. L’entusiasta enumerazione delle sue opere serve da contrasto alla loro descrizione: autentici obbrobri indigesti. Tutta l’ironia del racconto risiede in quel contrasto fra il tono esaltato del narratore e la coscienza, in chi legge, che il narratore o è uno stupido o è un falso.
Con ciò, Borges realizza un’operazione meravigliosa: fa diventare il lettore un secondo narratore, perché nel rendersi conto delle bugie del primo, mentalmente riscrive il racconto. L’ironia di Borges raggiunge il suo climax quando descrive il capolavoro di Ménard: il Chisciotte. Infatti, Pierre Ménard pretende di riscrivere l’opera di Cervantes, e dopo infinite prove, arriva alla conclusione che, essendo il Chisciotte irripetibile, non gli resta che copiarlo, parola per parola, sillaba per sillaba, virgola per virgola. La burla arriva al suo punto massimo quando il narratore commenta un paragrafo del Chisciotte scritto da Ménard. Naturalmente, lo riempie di lusinghe. Dopo trascrive lo stesso paragrafo dell’opera originale. Naturalmente, trova lì tutti i difetti e gli anacronismi di un’opera del Seicento. Tanta burla apparente nasconde una verità intima: un’opera non è la stessa in secolo che in un altro. Non è nemmeno la stessa quando la leggiamo a vent’anni che a quaranta. Soprattutto opere come quella di Cervantes: impossibile nell’infanzia, curiosa nell’adolescenza, interessante in gioventù, deliziosa nella maturità, fonte di consolazione nella vecchiaia.
Nel Diario di uno scrittore di Fedor Dostoevskij troviamo le più esaltate lodi al Don Chisciotte. Forse la lusinga più grande che si possa fare a un’opera artistica si trova in una lettera del 1876, quando Dostoevskij esclama: “In tutto il mondo non c’è opera di finzione più profonda e forte di essa. Finora rappresenta la suprema e massima espressione di pensiero umano, la più amara ironia che possa formulare l’uomo e, se finisse il mondo e qualcuno domandasse agli uomini: ‘Vediamo, cosa avete tratto dalla vostra vita e quale conclusione definitiva avete dedotto da essa?’ Gli uomini potrebbero mostrare in silenzio il Chisciotte e dire poi: ‘Questa è la mia conclusione sulla vita e … potresti condannarmi per essa?'”.
Un anno dopo Dostoevskij torna a occuparsi del romanzo di Cervantes, e questa volta fa una riflessione meno esclamativa per fermarsi in una questione che, per lo scrittore russo, doveva essere molto importante. Dopo aver dichiarato la sua ammirazione per il personaggio che chiama con un certo eccesso “il più generoso cavaliere che ha conosciuto il mondo, l’anima più candida e uno dei cuori più grandi”, racconta Dostoevskij che, a un certo punto della sua vita, Don Chisciotte fu assalito da un’inquietudine.
Era risaputo che i cavalieri erranti potevano, per amore della propria donna, affrontare un esercito di centomila uomini e sconfiggerli. Nonostante ciò, Don Chisciotte si domanda: “com’è possibile tale azione?”. Se uccidere un solo uomo comporta un sacco di tempo, ucciderne centomila richiederà ore di sforzi, e una capacità di resistenza fuori dal comune. In altre parole, Don Chisciotte diventa un lettore dubbioso. Cade una delle condizioni indispensabili per la finzione: “La sospensione momentanea dell’incredulità”, predicata da Samuel Taylor Coleridge. Quando uno si domanda: “come è possibile questo?”, fa diventare impossibile Ulisse, Enea, Dante nell’Inferno, Hamlet, Faust, l’intera letteratura.
Don Chisciotte, ci racconta Dostoevskij, risolve il dubbio in questo modo:
“Ho risolto l’enigma, Sancho — disse alla fine Don Chisciotte —. Tutti questi giganti, tutti questi maligni fattucchieri erano forze impure e i loro eserciti condividevano quel carattere magico e impuro. Bisogna immaginare che quegli eserciti non erano composti di uomini di carne e ossa come noi. Tali uomini non erano più di un’illusione, un prodotto della magia, e, con tutta probabilità, i loro corpi non assomigliavano ai nostri, bensì ai molluschi e ai vermi e ai ragni. Quindi la spada ferma e tagliente del Cavaliere afferrata dalla sua potente mano, quando cadeva su tali corpi, li trapassava all’istante, quasi senza nessuna resistenza, come se tagliasse l’aria. In quel caso, di un solo taglio poteva attraversare, effettivamente, tre o quattro corpi, e addirittura 10, se erano molto stretti. Così si capisce come l’affare si risolvesse con tanta rapidità e come un cavaliere potesse in verità distruggere in qualche ora eserciti completi di creature maligne e mostruose…”.
Quindi, affinché il cavaliere potesse uccidere centomila uomini, i maghi incantatori facevano diventare questi uomini molluschi, vermi e ragni in modo che un solo colpo eliminasse centinaia di essi. Ma la cosa importante di questo frammento del diario di Dostoevskij non è il dubbio e la soluzione di quel dubbio. L’importante risiede nella conclusione cui arriva lo scrittore russo: persino l’uomo più posseduto dalla fantasia ha bisogno di realismo (“Desiderio di realismo”, dice Dostoevskij).
Annotiamo una prima questione: se l’uomo di fantasia ha bisogno di realismo, come lo risolve Don Chisciotte? Nelle parole di Dostoevskij, con altre fantasie: la riduzione di centomila uomini a centomila molluschi. Il che non può essere più fantastico. Soddisfare la necessità di realismo con una fantasia diventa un paradosso.
Non finisce qui la questione. Settantasei anni dopo che Dostoevskij aveva scritto quella pagina nel suo Diario, si scoprì che da nessuna parte, nel Chisciotte, esiste il paragrafo citato. Dostoevskij, citando a memoria, si è inventato quel frammento dell’opera di Cervantes.
Entriamo qui nel regno della letteratura fantastica al quadrato. Tentando di dimostrare la necessità di realismo di Don Chisciotte o, detto meglio, della “necessità di realismo” di Dostoevskij, lo scrittore russo riscrive il romanzo a suo modo e diventa, in quel fugace momento, anche lui autore del Chisciotte. Non solo Alonso Fernández de Avellaneda, autore della falsa seconda parte; non solo Don Miguel de Unamuno, che riscrive l’opera cervantina con maggiore enfasi; non solo Pierre Ménard che neppure esiste. Possiamo anche citare Fedor Dostoevskij come autore del Chisciotte.