12 febbraio 1966, 12 febbraio 2016. Che cosa rimane di Elio Vittorini a settant’anni dalla morte? La risposta questa volta è soggettiva e implica il ricordo vivo di pagine che si sono molto amate e perciò riemergono dal ricordo con la forza di un giudizio sul presente.
Innanzitutto la sua figura di uomo. Sembra che l’inquietudine la domini e sia alla base dei suoi spostamenti per l’Italia, da quando, lasciata per sempre nel 1932 la natia Sicilia, lavora dapprima come contabile in Venezia Giulia, poi a Firenze, dove sposa Rosa Quasimodo, sorella del poeta, come correttore di bozze; dal 1939 si fermerà a Milano. Molti i lavori, i tentativi, gli scritti, le collaborazioni con riviste ed editori che si avvalgono della sua opera di traduttore e di autore. Una militanza letteraria la sua, che lo accomuna ad altri autori come Pratolini, che gli fa pubblicare Calvino e Pavese piuttosto che Tomasi di Lampedusa nella sua consulenza editoriale presso Bompiani ed Einaudi. Fascista di sinistra, poi espulso dal partito per aver sostenuto la guerra contro Franco, poi comunista, negli ultimi anni si avvicina a socialisti e radicali.
In secondo luogo Uomini e no, romanzo pubblicato da Bompiani nel 1945 sulla guerra civile a Milano nell’inverno 1943. In esso la crudezza dei fatti è temperata dalla vicenda d’amore del partigiano Enne 2 e della sua donna, ma anche dall’umanità della gente comune, che soffre dei morti che vede per le strade, che a suo modo li onora, coprendo le loro nudità. A dispetto del titolo, gli uomini non sono solo quelli che hanno vinto; non c’è, come del resto in Fenoglio, l’arroganza di chi divide in due con un taglio netto i buoni e i cattivi, i partigiani e i fascisti. C’è la denuncia del male, quello estremo dei tedeschi, ma anche quello che si annida nella debolezza, nella noia, nei dubbi dei difensori d’Italia. Un romanzo poetico e umano, che aiuta a capire il clima di una città prostrata ma non vinta, che serve a darsi ragione di tanti omicidi di gente comune avvenuti proprio quell’inverno nel quale, a poca distanza dai luoghi citati nel libro, fu ucciso mio nonno senza apparente motivo, se non quello di coprire con un delitto politico la volontà di impadronirsi della sua attività e dei suoi beni.
E’ naturale che chi ritrovi in un romanzo le tracce di una situazione che non ha vissuto, ma che ha patito nelle sue conseguenze, chi ritrovi i luoghi noti in cui si dipana la sua vita descritti da una prosa insieme sognante e ferma, non possa che prediligere questo racconto su altre produzioni di Vittorini.
E infine la sua avventura con Il politecnico, rivista pubblicata dal 1945 al 1947 e poi chiusa da Togliatti. Al centro del dibattito era la funzione della cultura all’interno del partito comunista che cercava il potere i tutti i luoghi possibili della società civile e principalmente nei settori culturali dopo il disastro del fascismo e della guerra. A Vittorini che rivendicava con forza la libertà della produzione intellettuale, che pur doveva fare i conti con i cambiamenti della società, Togliatti rispondeva con la concezione di un ceto di scrittori, poeti, saggisti, giornalisti che rimaneva di fatto asservito al progetto politico del partito. Quello che Vittorini non poteva accettare e che definiva “suonare il piffero alla rivoluzione”. Pagine queste molto lette nel dibattito critico intorno alla concezione crociana dell’autonomia dell’arte, nel periodo immediatamente precedente il Sessantotto e forse ancor prima dell’affermarsi di Pasolini. Bisognerebbe rileggerle; sono pagine coraggiose e ferme, che non ressero alla violenza ideologica di chi deteneva il potere. Non è datato ripercorrere quella vicenda di libertà intellettuale pagata a caro prezzo e culminata nell’abbandono del Pci da parte di Vittorini, ma se si pensa al crollo delle ideologie, al relativismo e al pensiero unico di oggi, essa appare invece al cuore della funzione dell’arte, richiamo a un oltre, che travalica l’angustia del presente, che tenta di dire il desiderio che va al di là della pura gestione dell’opinione pubblica e del potere che la guida.
Soprattuto in tempi come questi in cui il pensiero comune, incapace di ascoltare i pochi maestri che ancora si possono riconoscere, registra la soggezione alle mode indotte dai media e dai social e rivela un preoccupante abbassamento di livello.