— “Fratello, finalmente!”; “Abbiamo parlato come fratelli”, “ci siamo ritrovati come fratelli nella fede cristiana”. In queste parole, dette prima e dopo l’incontro e poi scritte nella dichiarazione congiunta sottoscritta da Papa Francesco e dal Patriarca Kirill, troviamo ripetuto per ben tre volte il nome che rivela il primo significato di quanto è avvenuto poco fa all’Avana: “fratello”. Si è trattato, dunque, di un incontro tra fratelli. Sbaglieremmo, se interpretassimo questa parola in un modo sentimentale o — peggio — formale.
Il comunicato finale dell’incontro, infatti, parla di “fratelli nella fede cristiana”, e se andiamo a cercare nei detti di Gesù cosa significhi questo termine, subito ci imbattiamo nella pregnanza di significato di un notissimo (e troppo spesso dato per scontato) versetto del vangelo di Matteo (Mt 23,8): “Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli”. Incontrarsi come fratelli, dunque, implica non solo — e sarebbe già molto! — il riconoscimento della discendenza da un unico Padre, ma anche quello di una comune dipendenza da un solo maestro, Cristo. Proprio in questa affermazione di un comune discepolato possiamo vedere la volontà di andare oltre una logica di “possesso” della verità che sovente, in passato, ha portato a ritenere di poter bastare a se stessi, e a non riconoscere alcuna utilità nell’incontro con chi si pensava non potesse aggiungere nulla al proprio patrimonio dottrinale. Ma, ora, la prospettiva si annuncia ben diversa: il Papa e il Patriarca, infatti, affermano di essersi incontrati “con gioia… per parlare ‘a viva voce’ (2Gv 12), da cuore a cuore, e discutere dei rapporti reciproci tra le Chiese, dei problemi essenziali dei nostri fedeli e delle prospettive di sviluppo della civiltà umana”.
Non possiamo sottovalutare la portata di queste affermazioni, né ritenerle semplicemente frutto di una dovuta e formale cortesia: anche in questo caso, infatti, l’allusione alla seconda lettera dell’apostolo Giovanni (“Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho voluto farlo per mezzo di carta e di inchiostro; ho speranza di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena”) ci aiuta a riconoscere gli elementi di novità contenuti in questo incontro.
Se infatti — come suggerisce l’applicazione all’oggi della citazione dell’apostolo — non è cosa nuova che vi siano scambi di lettere tra Roma e Mosca, la possibilità di parlarsi “a viva voce” e “da cuore a cuore” porta con sé la speranza di un fattore nuovo, capace di spezzare una logica connessa unicamente al confronto (o allo scontro) di posizioni dottrinali ritenute ciascuna già compiuta in sé e bisognosa solo di essere riconosciuta dall’altro. Questo fattore nuovo — ci dicono Francesco e Kirill attraverso il richiamo delle parole di Giovanni — è la ricerca di una gioia che sia “nostra” e “piena”. E dalla quale può nascere un nuovo modo di accostarsi anche alla trattazione congiunta dei problemi più urgenti e seri relativamente alla vita di tutte le Chiese e di tutti i popoli.
Non un’analisi geopolitica o sociologica, dunque; non l’incontro di due potenti che tengono in mano i destini del mondo; non lo studio di provvedimenti volti a ben circoscrivere le reciproche sfere di influenza. Quello che è iniziato sotto i nostri occhi è il desiderio di due fratelli di riconoscersi tali, superando le “antiche contese del ‘Vecchio Mondo'” per ritrovarsi innanzitutto tesi a “rendere conto al mondo della speranza” che li anima, e che riconoscono come dono gratuito del Padre, capace di infondere gioia e gratitudine. Con questa gioia e questa gratitudine possono essere affrontati insieme anche gli aspetti più dolorosi e sfidanti della realtà, come in primo luogo il martirio dei cristiani nel Medio Oriente, che non solo hanno costituito un fattore decisivo per sciogliere gli ostacoli che si frapponevano all’incontro di Francesco e Kirill, ma che mostrano come l’unità tra i credenti in Cristo sia qualcosa che è già in atto, e davanti a cui i due fratelli ritrovati si inchinano, perché i martiri già testimoniano “la verità del Vangelo”.