Nei primi giorni del febbraio del 1986 ebbe inizio a Palermo nell’aula bunker, appositamente e velocemente costruita in meno di un anno nel carcere dell’Ucciardone, il maxiprocesso alla mafia. Una svolta epocale nella lotta a Cosa nostra che a distanza di trent’anni conserva tutta la sua validità e importanza. Fu la reazione che lo Stato attraverso la magistratura e le forze dell’ordine diede ad una gravissima situazione criminale che dal 1976 aveva insanguinato la Sicilia, con cadaveri “eccellenti” (magistrati, poliziotti, politici, giornalisti) e uomini delle due cosche rivali: i corleonesi guidati da Totò Riina e i “perdenti” rappresentati da Stefano Bontate, tra i primi ad essere ucciso. 



Il processo transitò all’ufficio istruzione, e Rocco Chinnici, nominato a capo dell’ufficio dopo l’uccisione del designato Cesare Terranova, ne assunse la titolarità. Dopo l’assassinio nel 1983 di Chinnici, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto assegnò il processo a Giovanni Falcone affiancandogli Paolo Borsellino: nacque così il nucleo fondante del pool dell’ufficio istruzione, che poi si arricchì di altri giudici. 



Una svolta determinante e per certi versi storica per le indagini si ebbe con la collaborazione di Tommaso Buscetta. Non vi è dubbio che grazie alle sue dichiarazioni l’indagine fece un notevole salto di qualità, creando le condizioni che portarono al maxiprocesso. 

Il 10 febbraio 1986, in una mattinata fredda e piovosa, davanti a quella che qualcuno definì una moderna “astronave” della giustizia, si ritrovarono centinaia di giornalisti, fotoreporter, cameramen di tutto il mondo. La Corte era presieduta da Alfonso Giordano, giudice a latere Pietro Grasso (poi procuratore di Palermo, procuratore nazionale antimafia e oggi presidente del Senato). L’accusa era sostenuta dai pm Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. Nell’aula bunker sfilarono alcuni personaggi storici della mafia: Luciano Liggio, Pippo Calò, Michele Greco. E tra gli imputati a piede libero anche i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori ammanigliati con la politica ormai avviati verso il tramonto. Nino sarebbe morto presto per un tumore; Ignazio sarebbe stato ucciso poco dopo. 



La sentenza di rinvio a giudizio era racchiusa in oltre 9mila pagine dove erano descritte la nuova struttura di Cosa nostra e il ruolo egemone dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Il 16 dicembre 1987, dopo 349 udienze e 36 giorni di riunione in camera di consiglio, la Corte emise la sentenza: 19 ergastoli, condanne per 2665 anni di reclusione. 

Il giudizio di appello, che si concluse il 12 novembre 1990, ridusse a 218 le condanne e a 12 gli ergastoli inflitti in primo grado ed alcuni mafiosi apparve come una possibilità per portare indietro le lancette della storia, agli anni in cui i mafiosi venivano assolti con la formula “per insufficienza di prove”.

In Cassazione, il collegio presieduto dal giudice Arnaldo Valente, con la sentenza del 20 gennaio 1992, avallò l’impostazione complessiva del processo specie nella parte relativa alla responsabilità degli appartenenti alla “cupola” mafiosa per gli omicidi “strategici” dell’organizzazione. La Corte annullò anche le assoluzioni della sentenza della Corte di Appello.  

“Fu un trionfo il cui merito era essenzialmente di Giovanni Falcone — ha scritto il giudice Alberto Di Pisa — che con indagini approfondite e prolungate aveva costruito un processo di notevole complessità e saldo sotto il profilo probatorio. La mafia lo sapeva e non glielo avrebbe perdonato così come non lo perdonò ai politici che ritenne responsabili delle condanne subite”.

Di lì a poco Cosa nostra avrebbe servito la sua vendetta con le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma, come prevedeva Falcone, la partita non si sarebbe chiusa. Il maxiprocesso segnò infatti la tappa più importante della riscossa civile della Sicilia conservandone tutta l’attualità e il significato a distanza di trent’anni.