A poco più di un mese dall’inizio della fiera di arte contemporanea di Bologna (l’evento si è concluso lo scorso 2 febbraio, ndr) la nostra galleria viene informata che l’artista che avevamo scelto per partecipare a questo evento con una mostra personale si è ammalato seriamente e non sarà in grado di produrre le opere previste per allestire lo stand.
Prima di imbastire questo diario minimo di una singolare vicenda che ci ha portato dal panico, allo stupore, al divertimento e alla grande soddisfazione per un esito non scontato, vorrei fare alcune premesse sulla Fiera di Bologna e su alcuni aspetti dell’arte contemporanea che sono connessi alle manifestazioni di questo genere.
Artefiera, così si chiama la rassegna bolognese, è la più antica, frequentata e apprezzata in Italia, sia per l’impressionante numero di visitatori che per il riscontro commerciale. Azzardo una percentuale ottenuta in modo intuitivo, ma penso che il 90 per cento delle vendite di opere d’arte transiti da manifestazioni fieristiche.
Esiste quindi una competizione feroce per essere inclusi e si viene giudicati da un comitato molto severo e selettivo di critici d’arte e galleristi rinomati.
Sarò costretto a formare delle categorie un po’ riduttive e grossolane per riuscire a descrivere semplicemente il nostro ambiente dell’arte contemporanea e la stessa fiera e dare un senso al mio racconto. Diciamo che esistono due poli antagonisti, uno nazional-popolare, l’altro radical-snob. Ci sono fiere, artisti, collezionisti e giornalisti del primo e del secondo tipo. L’ala radical-snob, comunque, domina la scena.
Il comitato che determina le ammissioni alla fiera di Bologna è piuttosto radical-snob, il pubblico è largamente nazional-popolare ma i clienti che spendono di più sono i radical-snob.
La pittura e la scultura figurativa, di cui noi siamo sostenitori, è nazional-popolare. L’arte concettuale, la fotografia di tendenza, e comunque i grandissimi nomi della scena internazionale e dei musei sono radical-snob. I radical-snob vogliono far fuori i nazional-popolari, mentre i secondi vorrebbero solo partecipare.
L’artista più nazional-popolare della scuderia Rubin è Letizia Fornasieri. Osa dipingere la mamma, i fiori, le case del quartiere, le mensole del suo lavello in modo quasi naturalistico. I radical-snob ci avversano da anni per questa nostra inspiegabile passione.
Vista la forzata rinuncia dell’artista con cui avevamo chiesto di partecipare, proviamo a fare il nome di Letizia Fornasieri in alternativa. Il critico incaricato di decidere esplora il sito della nostra artista e nota con rammarico sulla home page l’immagine di una grattugia con una pera, e mi telefona molto allarmato: devo fornire subito delle altre opzioni. In questi ultimi due anni, però, Letizia Fornasieri, ha sviluppato una nuova pittura decisamente più contemporanea e compatibile con lo spirito radical-snob, e io aggiungo una più aggiornata documentazione al profilo di altri due pittori figurativi della mia scuderia inviando il tutto alla commissione giudicante. Risultato: viene scelta proprio Letizia Fornasieri.
Manca un mese all’inizio della fiera e le opere non esistono ancora. Letizia ha venduto praticamente tutti i quadri della mostra appena terminata al museo diocesano di Milano, incombono le festività natalizie, la sorella Annetta (gravemente handicappata) reclama la sua assidua presenza, le grattugie e i lavelli reali rappresentano comunque un impegno quotidiano che sottrae tempo alla pittura.
In questo dramma autentico Letizia Fornasieri compie il miracolo. I quadri, eccezionalmente belli, sono pronti dodici ore prima della partenza. Sono ancora freschi, dobbiamo fare acrobazie per montarli sui telai e costruire delle armature in legno per distanziare gli imballi dalla superficie.
Il giorno dell’allestimento ci rendiamo conto di essere stati collocati nell’ultima fila del padiglione più isolato della fiera. Al nostro fianco un nostro amico scultore, in bilico tra le due opposte tendenze che abbiamo descritto, ci viene a trovare e rimane stupefatto: “Ma questa è Letizia Fornasieri? Bellissimi!!” Gli artisti sono assai cauti nel giudicare positivamente i colleghi e il suo apprezzamento ci rincuora.
Scattano i giorni della fiera. Nonostante l’infelicissima posizione lo stand è sempre traboccante di gente meravigliata. “Ma chi è??”. Il lavoro è frenetico, siamo assaliti di richieste. Quattrocento opuscoli stampati per l’occasione sono spazzati via e dobbiamo stamparne altri quattrocento per far fronte alla domanda.
Siamo assediati dai nazional-popolari, guardati con curiosità dai radical-snob, letteralmente tempestati dagli studenti d’arte giapponesi e australiani, inquisiti da giovani galleriste londinesi con i capelli viola.
Un ex ministro della Cultura che oggi presiede il principale museo nazionale di arte contemporanea, è condotta dalla gallerista che si trova di fronte al nostro stand a osservare un gruppo di foto molto cupe appese sulla parete esterna del suo, che rappresentano fasi del parto di una donna africana. La accompagna il marito che distoglie per un attimo gli occhi dall’impegnativa visione, gira di alcuni gradi la testa nella nostra direzione, viene abbagliato dai colori e si apre in un sorriso: “Ma a me piace questa!” esclama timidamente mentre l’ex ministro deve riconoscere che il parto va bene, però….
Entrano quindi con un po’ di imbarazzo nel nostro stand abbandonando la nostra collega ed elargiscono complimenti molto schietti, davvero poco ministeriali, gli stessi che riceviamo da giorni in misura tanto sovrabbondante da non poterne più.
Ora, in questo notevole successo di stima, molti notano un paradosso. Quando il pubblico scopre un nuovo grande talento in una fiera, per una specie di riflesso condizionato, chiede subito l’età dell’artista. E quanti anni ha Letizia? Ahimè, sessanta. Questa è una stranezza che non perdonano nè i nazional-popolari, nè i radical-snob. Inoltre, come testimoniano i suoi vecchi cataloghi, esiste un’ulteriore stravaganza. Quando Letizia aveva trent’anni dipingeva come un grande maestro di sessanta e adesso che li ha raggiunti all’anagrafe, ha la spregiudicata disinvoltura di una ventenne. Il pubblico di ogni colore è entusiasta ma perplesso.
Non ricordano che Richard Diebenkorn, un sommo pittore americano che tanto somiglia alla mia artista e a quel William Congdon che lasciò l’America per trasferirsi ad Assisi, raggiunse a sessant’anni l’apogeo della sua carriera con la serie Ocean Park.
Ma la soddisfazione più grande, tenera, e commovente arriva da un’impiegata della fiera di Bologna, una di quelle signore che non passeggiano mai lungo i corridoi di Artefiera, perché sono negli uffici a sgobbare per tutte le rassegne di ogni genere, dall’edilizia alla apparecchiature medicali. Ebbene, questa signora ci attende per mezz’ora prima dell’apertura della giornata nel nostro stand. Vuole comprare i cataloghi di Letizia Fornasieri e nei suoi reparti gira voce che siano esauriti. In mano un biglietto da cinquanta euro. Nonostante io esorti sempre Letizia a non essere troppo generosa, di fronte a una simile testimonianza, rinuncio alla mia rigidezza e regalo alla signora tre preziosi volumi.
Gran finale. Due miei cari amici, rappresentanti quasi ultras dell’ala radical-snob, si incontrano nella carrozza di prima classe della freccia che torna da Bologna a Milano. “Ah, che decadenza, che orrore — dice il primo — la peggiore edizione della fiera da tanti anni. Ma tu sei riuscito a vedere una cosa decente?” “Sai — fa l’altro — sono stato molto colpito da una certa Letizia Fornasieri”. “Ma va! Pure io…”.