Ci sono libri che richiedono, per essere letti, una marcia di avvicinamento, per arrivare alla base della parete che si intende violare. È questo il caso delle Tre Montagne di Matteo Meschiari, libro raro quanto prezioso nella stanca modernità occidentale. Sono tre montagne, o meglio tre voci, impastate di materia diversa (ghiaccio, fuoco e foresta), che ci introducono ad altrettante narrazioni, autonome eppure interdipendenti come cime di una stessa lunga dorsale. Non è un caso che l’autore in questione sia impossibile da definire secondo i canoni soliti: antropologo e geografo di formazione saldamente filologica, Meschiari si misura per professione con una produzione saggistica che intreccia wilderness, storia dell’abitare, sistemi di paesaggio reali e simbolici (sua è la teoria della Landscape mind). Questa ricchezza polifonica di formazione, piuttosto che costituire un limite, cola nella scrittura narrativa come un magma che scolpisce poi, raffreddandosi nel lavoro della lingua, personaggi quasi sempre senza nome, ma perentori nella loro essenza. 



Nel primo racconto, Svernamento, il protagonista è un vecchio geologo che si trova a confrontarsi con l’ascesa ad un ghiacciaio, per concludere un tratto della vita iniziato molti anni prima. La preparazione a questa giornata è preceduta da accenni di appunti scritti in prima persona su un taccuino, vecchie storie incagliate tra i ghiacci della sua storia personale, come le navi che a cavallo tra due secoli cercavano un passaggio a Nord e spesso rimanevano intrappolate nella morsa artica per tutto l’inverno. È una vicenda di fatti assoluti: salire, lanciare le parole di tanti anni nel paesaggio, mancare il punto di risalita, provare dolore, aspettare l’alba. L’inverno, quel lungo inverno che è la vita, personale e politica, finisce così: nella luce.



Il secondo racconto, Primo Appennino, trasforma i luoghi di origine dell’autore nell’epopea di un riconoscibile Gilgamesh appenninico e del suo amico lungo l’era della guerra partigiana, scritta alla maniera di una tragedia greca. È l’unico racconto in cui sappiamo i nomi dei protagonisti, Enrico e Guglielmo. Soprattutto Enrico, l’anarchico, il selvatico, il buono. In una citazione altrove molto usata dall’autore, Leonardo da Vinci dice che “Salvatico è quel che si salva“. Ma in questo caso Enrico, dopo lunghe peripezie, muore, accompagnato dallo strazio del coro. Questa morte equivale alla perdita del significato letterale (“Cos’è dietro? Cos’è tu?”), ma anche dell’orientamento (“Dov’è la vita, Gugliemo? Dov’è?”), e davanti a questo spaesamento tutto sembra dissolversi, nel “bianco sconfinato del piatto attorno al piccolo fagiolo della vita“. C’è sempre un vecchio, in apertura e in chiusura della cornice all’epopea. Un vecchio sul letto di morte, o un vecchio ferito, perso nel bosco come un cervo sfuggito a chi lo bracca, da cui nasce il racconto, o la visione. La visione e il racconto, dunque, su un crinale fra il tutto e il nulla, senza possibilità di soluzione metafisica. Non c’è mai nemmeno l’ipotesi lontana di un deus ex machina che rimetta a posto le cose.



Il terzo movimento, Pace nella valle, rende omaggio ad uno degli scrittori più amati da Meschiari, James Kilgo. Un padre e un figlio partono per un paese sulla montagna, da un piazzale di stazione delle autocorriere, che poi subito scompare (come si dilegua, in queste pagine, ogni traccia di mondo contemporaneo, portata via dal finestrino). I due partono soli, per una battuta di caccia nel bosco, e si trovano a seguire un animale ferito, ma non da loro, che lascia una rugiada di sangue per via (sarà il tempo, questo animale ferito? Sarà la storia, l’eterna assente di queste pagine? O qualcosa di completamente, radicalmente altro?). La fine della vicenda è tanto inaspettata quanto, in fondo, inevitabile; deve succedere così, perché ci sia pace nella valle. Quando non puoi fare niente, sembra dirci Meschiari, puoi decidere di essere, di esserci, in un qui ed ora che si colloca al di fuori del tempo.

La memoria riemerge come una radice dal terreno“. Un uomo è se stesso, ma anche tutti i millenni di uomini — padri, fratelli, figli — uniti nella grande caccia. Non c’è bisogno di donne; ci sono le montagne, il punto in cui l’orizzonte spezza e incrina lo sguardo. Chi ci aspetta nel futuro è chi ci ha generato nel passato, e noi generiamo i nostri padri, nel generare i nostri figli. La pace nella valle non è assenza di dolore, è anzi pagata con un prezzo altissimo. Come negli altri due quadri, ci si confronta con la dramatis persona della morte. Ma accade proprio il contrario di ciò che George Steiner denuncia nel secondo Novecento, ne La morte della tragedia. Poiché non si ha mai paura di nominarla, addirittura di guardarla in faccia, essa non prevale mai sul senso potente della vita e della luce, per quanto incalzata dal buio, in un impianto di stampo metonimico, piuttosto che metaforico. Ciò che resta non è la morte, ma sempre il presente, la vastità dell’oggi, dell’ora buia che si apre all’alba, della solitudine piena delle ombre dei morti, che sono presenti.

Un libro generoso e non facile, come una stratigrafia che si vorrebbe continuare ad indagare all’infinito, in cui la lingua acquista però una facilità solo apparentemente naturale, dovuta a una lunga erosione di tutto ciò che non è necessario alla creazione di un immaginario condivisibile, di un paesaggio personale ma, al tempo stesso, abitabile da chiunque.

La bella nota finale, di Gian Luca Picconi, sottolinea giustamente come “sempre, in ogni testo, qualcosa viaggia come un passeggero clandestino“; la domanda che resta potente, nella discesa dalla montagna, è se questo passeggero clandestino, qui, non sia proprio il lettore, mai chiamato direttamente in causa, ma mai autorizzato a interrompere il cammino. Picconi conclude dicendo che, infine, “come lettori forse non abbiamo capito cosa è il paesaggio, ma, ora, abbiamo un paesaggio”. Spingendoci ancora oltre, potremmo forse dire che quel paesaggio arriva a diventare un volto, su cui si fa avanti l’alba, come su una dolomia di carne che, in un tempo remoto, era mare. Su cui possa farsi avanti una pace, dopo l’inverno e la guerra, che non sconti il morso dell’ingiustizia, ma solo di quella vertigine dura e luminosa che dividiamo con gli altri, e che chiamiamo vita.