Può sembrare paradossale, ma la situazione in Medio Oriente si presentava meno complessa durante la Guerra Fredda, quando anche in questa regione gli Stati si dividevano “solo” tra i due blocchi. Grosso modo, Arabia Saudita, Stati del Golfo, Turchia, Libano, Giordania, Iran e Israele schierati con il blocco occidentale, mentre dalla parte dei sovietici si trovavano Iraq, Siria e movimento palestinese, improntati a ideologie di sinistra, sia pure in salsa araba.
L’Iraq è ora diviso in entità sostanzialmente separate e comunque in guerra, la Siria è immersa da anni in una cruenta guerra civile, il Libano vive una precaria situazione di “separati in casa” tra le sue varie componenti, con gli sciiti di Hezbollah direttamente coinvolti nella guerra in Siria. In più deve fronteggiare la catastrofe umanitaria dei profughi, insieme alla Giordania, rimasta il Paese più stabile della regione grazie alla sua monarchia.
Il movimento palestinese è irrimediabilmente spaccato tra la componente laico-socialista di Al-Fatah e quella islamica estremista di Hamas, mentre anche in Israele si assiste a una virata dall’impronta laico-socialista del primo sionismo verso un’impostazione più confessionale, che allontana la soluzione dei “due Stati”, resa peraltro quasi impossibile dalla spaccatura tra i palestinesi.
In Iran, la rivoluzione del 1979 che ha rovesciato l’autoritaria monarchia dei Palhavi, sostanzialmente laica e filo-occidentale, ha portato allo Stato confessionale guidato dagli ayatollah. Anche alla laicissima Turchia dei Giovani Turchi è succeduto un regime islamico, anche se definito moderato. Pur rimanendo formalmente nella Nato, la Turchia di Erdogan si sta allontanando sempre di più dall’immagine di “bastione orientale dell’Occidente” della Guerra Fredda. Simili considerazioni si possono fare per Arabia Saudita e Stati del Golfo, formalmente alleati degli Stati Uniti ma, almeno Arabia e Qatar, finanziatori di movimenti islamici estremisti.
In questo sconvolto scenario si possono individuare dei fili conduttori, che diventano però a loro volta vere e proprie faglie.
La prima, di carattere etnico, va contro l’eccessiva semplificazione per cui si tende a parlare quasi sempre di “Paesi arabi”. In realtà, più o meno la metà degli abitanti della regione non sono arabi (escludendo l’Egitto come Paese mediorientale). Senza entrare in una dettagliata analisi delle numerose minoranze presenti, basta prendere in considerazione i due maggior Stati della regione: l’Iran, la cui popolazione (circa 78 milioni) è in grande maggioranza indoeuropea, più precisamente ariana, con una minoranza araba valutata attorno al 2 per cento, e la Turchia, la cui popolazione (attorno ai 76 milioni) appartiene appunto alla più vasta famiglia turca, con solo circa un 2 per cento di arabi.
La religione islamica, dominante nella regione pur in presenza di forti minoranze, a partire da quelle cristiane, può essere vista come un elemento unificante, benché si presenti con un’ampia varietà di riti e confessioni. Non si può, tuttavia, non considerare il millenario conflitto tra sunniti e sciiti, riesploso ora in questa regione, nella quale si ha la maggiore concentrazione di sciiti, anch’essi divisi tra varie confessioni.
Stimati tra il 15 e il 20 per cento del mondo musulmano, gli sciiti sono più del 90 per cento in Iran e la maggioranza in Bahrein e in Iraq, con forti minoranze in Yemen e Libano, stimate attorno al 40 per cento, e forti presenze in Siria e nelle stesse Arabia Saudita e Turchia.
Iraq e Siria sono attraversate da queste due “faglie”, etnica e religiosa, data la presenza nei due Stati di arabi e non arabi, come i curdi indoeuropei, e di sciiti e sunniti. Ciò rende difficile una loro ricostituzione come Stati unitari, creazioni d’altro canto delle potenze occidentali dopo il collasso dell’impero ottomano. Restano quindi tre Stati con palesi pretese di egemonia nella regione: le sunnite Arabia Saudita e Turchia e lo sciita Iran, dato che Israele deve badare soprattutto alla sua esistenza e l’Egitto ha una posizione di cerniera tra Medio Oriente e Nord Africa.
L’obiettivo di Teheran potrebbe limitarsi, per così dire, alla cosiddetta “mezzaluna sciita”, che unirebbe le zone a maggioranza sciita dallo stesso Iran allo Yemen, passando per Iraq, Siria, Libano e Bahrein. Sotto questo profilo si potrebbe ipotizzare una divisione di aree di influenza con la Turchia, cui andrebbero le aree sunnite, ma questa ipotesi si scontra con il ruolo di leader regionale cui l’Arabia Saudita non vuole rinunciare.
Si inserisce a questo punto un altro asse, che potremmo definire storico-religioso. La politica estera di Erdogan viene spesso definita neo ottomana, cioè tesa a riportare sotto influenza turca le regioni mediorientali un tempo sotto il dominio di Costantinopoli. Fino all’abolizione del califfato da parte di Kemal Atatűrk nel 1924, il sultano ottomano deteneva anche il titolo di califfo, riassumendo così in sé autorità politica e religiosa. Non è un caso che alla autoproclamazione del califfato da parte di Abu Bakr al-Baghdadi (pseudonimo che unisce il primo califfo storico, appunto Abu Bakr, al periodo glorioso della dinastia abasside di Baghdad, quella delle Mille e una notte), in Turchia qualcuno abbia sottolineato che il califfato potrebbe risorgere solo lì. L’ambiguità di Erdogan verso l’Isis potrebbe trovare qui una delle ragioni: la sua futura sostituzione con un califfato turco storicamente legittimato.
Ipotesi probabilmente azzardata, ma che può preoccupare Riyadh, il cui ruolo leader nel mondo musulmano è fondato sulla custodia dei luoghi santi dell’islam, tali anche per gli sciiti. Obiettivamente, le distanze tra il wahabismo dominante in Arabia Saudita e l’islam dello stato islamico non sono molto ampie, ma il titolo di califfo avrebbe nel mondo sunnita una valenza più ampia di quello di custode dei luoghi santi.
In questo scontro, finiscono per essere discriminate e perseguitate tutte le minoranze, religiose o etniche, e in particolare i cristiani vengono visti come corpi estranei dalle varie fazioni, pur essendo i veri autoctoni della regione, insieme a ebrei e zoroastriani. La più grande minoranza etnica in lotta rimane quella curda, stimata tra i 20 e i 30 milioni di persone, divisa tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, protagonisti della resistenza all’Isis ma in lotta con la Turchia. Un popolo che sembra riassumere in sé tutte le “faglie” della regione.