Caro direttore,
l’articolo del prof. Costantino Esposito pubblicato su queste pagine mercoledì 17 febbraio mi ha suscitato alcune perplessità. Vero che il libero arbitrio è condizione necessaria ma non sufficiente per fare autentica esperienza di libertà. Retorica invece la domanda: “Può il semplice riconoscimento di un ordine naturale renderci liberi?”; certamente no. Infatti, non è il mio affermare la famiglia naturale come valore che mi rende più felice. Strana invece l’asserzione: “Nelle società occidentali forse i ‘valori’ morali sono irreparabilmente decaduti perché essi di per sé non rendono liberi”. Perché, verrebbe da dire, in quali altre società, o epoche, i valori “tenevano” perché rendevano liberi? Ma la conclusione dell’articolo è quella che, a mio parere, lascia più perplessi: “Quello che ci si aspetta dai cristiani non è tanto rivendicare la solida dottrina su Dio come argine al relativismo ed al soggettivismo post-moderno, quanto far comprendere che la verità infinita di sé e del mondo ha bisogno della libera scelta di ogni individuo per attuarsi”.
La condizione umana coincide con il “grido” di essere salvati, il grido di essere acciuffati e sollevati dal mare di male in cui la vita viene ridotta. E questo grido viene fuori non da una esperienza di libertà, ma da una esperienza di limite dentro il quale fiorisce improvvisamente una percezione di bene, la percezione di essere stati toccati dalla Grazia. Questa esperienza dell’essere salvati sprigiona una “nuova” umanità, una gratitudine (bene diffuso) contagiosa, piena di ragioni. E’ questo che tocca il cuore delle persone. Proprio come dice una canzone di Claudio Chieffo: “ma l’amaro, I’amaro che c’è in me sarà mutato in allegria”. E questo “amaro” è qualcosa di concreto, qualcosa che riguarda la mia vita, e che potrebbe essere, esemplificando, la mercificazione del corpo della donna mediante il cosiddetto “utero in affitto”; l’aborto procurato o fatto; la separazione coniugale; il privare il figlio della figura paterna o materna in ossequio ad una immaginata “nuova famiglia”, ecc. E dentro questo male, questo limite, dice Dante “ciascun confusamente un bene apprende nel qual si quieti l’animo e disira…”. Allora, mi tocca tanto la testimonianza concreta di due anziani che hanno passato la vita insieme nonostante i marosi della vita coniugale, quanto quella delle persone che mi confidano il dolore per il loro matrimonio andato in pezzi. Di fronte a questo male, l’incontro con Cristo dà la certezza della vita eterna e del “centuplo quaggiù”.
Mi sembra, dunque, mal posta la questione insita nella conclusione dell’articolo di Esposito, poiché non si tratta né di comunicare una dottrina astratta su Dio, né di comunicare una astratta libertà che aderisce ad una verità. Il problema semmai è quello di comunicare una vita, quel “centuplo quaggiù” che si è cominciato a sperimentare, o solamente ad intuire, ma in maniera concreta. Il “centuplo quaggiù” è, sempre esemplificando, la gioia di una vita accolta e non rifiutata; la bellezza della famiglia naturale; la cura premurosa di un anziano in famiglia, ecc. Ma il “centuplo quaggiù” è contagioso e attrae, e spinge a dare le ragioni.
Il guaio, purtroppo, è che da qualche parte si paventa il dubbio, un dubbio paralizzante, che tali ragioni si riducano ideologicamente alla comunicazione di puri “valori”, facendo passare la convinzione che siano essi a compiere la vita. Certamente il rischio esiste e non lo si può escludere, ma è altrettanto vero che tutta la vita è un rischio, ed è nella vita che uno verifica quanto dà senso ad essa. Senza il rischio della verifica, la vita non è veramente vissuta e “gustata”, né reperita la sua dignità.
Non si capisce poi il motivo della contrapposizione fra testimonianza e ragioni, poiché da duemila anni ci è stato proposto di essere “pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi”, 1Pt 3,14-17. E questo vale ancor di più oggi, visto che siamo in un’epoca di molta emozione e poche ragioni. Questi sono i tempi in cui bisogna riaffermare, attraverso la testimonianza personale, la verità delle cose, e con essa la realtà. Poiché, come stiamo sperimentando proprio in quest’epoca, quando la verità inscritta nel cuore dell’uomo, la legge naturale, viene negata o oscurata, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. L’affermarsi del totalitarismo urge ancor di più la responsabilità nostra verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. Responsabilità che non possiamo “borghesemente” evitare, poiché attraverso il conformismo oggi dilagante viene veicolata una cultura/ideologia che di umano ha ben poco. Se dunque forze politiche propongono leggi violente, come il caso del ddl Cirinnà, non possiamo esimerci dalla responsabilità di fare il possibile per evitare che questo male accada. Per esemplificare, mentre la casa brucia, magari con dentro persone che corrono il rischio di bruciare con essa, non possiamo stare a pensare se il prendere il secchio di acqua sia una operazione che “compia la mia vita”. Questo lo capiremo “nel mentre” l’azione si compie. Altrimenti si corre il rischio di essere astratti.
Il Papa san Giovanni Paolo II, nel partecipare al Meeting di Rimini del 1982, ci lasciò un impegno: che lavorassimo, ci sacrificassimo e pregassimo perché avvenisse sulla terra la civiltà della verità e dell’amore. Civiltà vuol dire una umanità vissuta, una vita di famiglia più piena che renda, a sua volta, più vera la vita del nostro Paese.
Per questo, ogni iniziativa a riguardo, come il Family day del 30 gennaio scorso, ritengo sia utile sulla scia della nostra responsabilità verso il bene comune.