C’era sicuramente una “diversità comunista”. Ma è abbastanza problematico ritenerla invidiabile (per usare un eufemismo) e rivendicarla come esempio di buon costume e probità politica come faceva con insistenza Enrico Berlinguer, ponendo, in quanto comunista che difendeva la “grande lezione” di Lenin, una “questione morale” per l’Italia. Nel 1969 Armando Cossutta doveva subire duri rimproveri dal custode dell’ideologia sovietica, Michail Suslov e dal grande elemosiniere Boris Ponomarev, a proposito di aiuti economici. Ponomarev, con poca sensibilità verso le esigenze di Cossutta e del Pci, minacciava: “Le tasche non sono inesauribili e in questo momento vengono in prima fila gli aiuti al Vietnam, a Cuba, ai Paesi arabi”. I sovietici tagliano il finanziamento ai compagni italiani: dai 5 milioni e 700 mila dollari del 1967-1968, si scende ai 3 milioni e 700 mila del 1969. Sempre dollari s’intende. E’ vero, c’era stata una critica del Pci all’Urss, al “grande fratello” sovietico per l’invasione della Cecoslovacchia. Ma presto il compagno Dubcek, il destabilizzatore dell’ortodossia sovietica, sarebbe stato destituito e sostituito (quindi dimenticato, che si se lo ricorda più ?) con il “nuovo” compagno Husak, l’uomo di Breznev. Quindi il taglio del finanziamento ai compagni italiani era in fondo solo una “sculacciata” nell’ambito dell’internazionalismo proletario.
Fantasie anticomuniste, populismo o vezzo antistorico e antipolitico? No. Virgolettati contenuti in documenti, già riportati in altri libri, volutamente coperti dal silenzio, dall’ipocrisia e per fortuna ripresi, riportati alla luce, con un racconto storico-politico di grande livello dall’ultimo libro di Ugo Finetti Botteghe oscure, con il sottotitolo “Il Pci di Berlinguer&Napolitano” mandato in libreria da Ares in questi giorni.
Finetti si dimostra, una volta di più, non solo un ricercatore storico di rara capacità, ma anche un analista politico di prim’ordine, anche perché masticava politica fin dai tempi dell’università, mentre altri si occupavano di “fantasie al potere” e di leggende metropolitane.
Seguendo altri libri già scritti come La Resistenza cancellata e Togliatti&Amendola. La lotta politica nel Pci (sempre editi da Ares), Finetti riesca a smascherare, di fatto, una storiografia conformistica e sostanzialmente disinformata e disinformante sulla sinistra italiana, sul Pci in particolare.
In fondo, l’episodio dell’Armando Cossutta con Suslov e Ponomarev è solo un fatto marginale di una realtà molto più complessa, sia sul piano finanziario sia su quello politico, nazionale e internazionale, della storia del partito comunista italiano.
Finetti conosce bene la storia del Pci e anche la sua importanza nella storia italiana. E non sottovaluta la grande battaglia che alcuni comunisti come Giorgio Amendola e altri uomini della destra comunista più “storica” hanno fatto all’interno del partito con una visione nazionale. Ma una volta sconfitta l’opposizione krusceviana di Amendola dal sostanziale centrismo togliattiano, che riesce a declinare Stalin, nonostante gli errori e gli orrori, nell’ambito di una storica battaglia democratica, il Pci entra in una sorta di opposizione confusa e ottusa contro ogni forma di collegamento reale con il riformismo italiano ed europeo.
La lotta all’interno del partito, che può essere sintetizzata nella contrapposizione, a periodi, tra le posizioni di Enrico Berlinguer, il segretario predestinato, e Giorgio Napolitano, l’erede, spesso ondivago in materia di fedeltà, di Giorgio Amendola (che ogni tanto deve difendersi da solo con grandi testimonianze), diventa un “coperta ideologica” confusa, che prima registra una grande espansione elettorale, poi un lento declino che sembra ritmato con i tempi dell’implosione sovietica, fino alla caduta del Muro di Berlino e alla scomparsa dell’Urss.
Nel racconto documentatissimo di Finetti, tutta la vicenda di Enrico Berlinguer è contrassegnata da posizioni politiche di incertezza e spesso di anacronismo. Le tappe seguite dal nuovo segretario, dal compromesso storico alla politica di solidarietà nazionale, a quella dell’alternanza, a quella del partito “perno” e poi del partito nuovo, assomigliano ai tentativi di un leader quasi “disperato”, anche se non poco rancoroso, che non riesce più a raccapezzarsi con una crisi storica che vede avanzare inesorabilmente.
Quando Berlinguer, il 28 luglio 1981, consegna la sua intervista a Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, sulla “questione morale” e sulla “diversità comunista”, è come se toccasse l’ultima spiaggia di una storia che è già ampiamente conclusa. Ma da quel momento Berlinguer sembra solo animato da uno spirito di rivincita. Purtroppo non si rende pienamente conto di quello che sta avvenendo in Urss e nel mondo. Non si rende soprattutto conto di quello che semina in Italia, contrapponendosi a una svolta laica e liberalsocialista, ma infilandosi in un sostanziale accordo con una Dc demitiana tutta spostata a sinistra e un Pri spadoliniano che vive tra rigore economico, atlantismo e nostalgie azioniste che non hanno mai fatto le fortune italiane.
L’eredità berlingueriana diventa a quel punto un miscuglio di moralismo e di sinistrismo di comodo, che si trasformerà inevitabilmente, dopo la caduta del comunismo, in un giustizialismo perverso e nella difesa anacronistica di una “diversità” che verrà formalmente esaltata e santificata, per opportunismo politico, ma sostanzialmente dimenticata di fronte alla voglia di governo. Tutto questo lascerà per contraccolpo spazio a incursioni neoliberiste e a visioni di esaltazione delle stesse iniziative avventuristiche della finanza mondiale.
In fondo se esisteva una “doppiezza” togliattiana ai tempi della “democrazia progressiva” e nello stesso tempo dell’attesa rivoluzionaria, nell’ultimo periodo del Pci si fa strada una doppiezza di “diversità” e di “moralità” che convive con i “fondi neri” con cui il Pci si alimenta e convive in bilanci da fantascienza. Ci sono diverse branche di fondi neri, di “amministrazione straordinaria”, anche quando è approvata la legge del finanziamento pubblico dei partiti.
Se qualcuno pensava che la “prima repubblica” doveva essere cancellata per le tangenti dei partiti democratici che erano impegnati nella guerra fredda e nell’opera di destabilizzazione contro l’Italia, doveva proprio soffrire di strabismo.
I fautori della “questione morale” e della diversità non sapevano come fare per far tornare i conti di bilanci truccati, “sporchi”, con l’aiuto di entrate straordinarie che avrebbero fatto impallidire qualsiasi ragionevole ragioniere.
Su tutto questo, naturalmente, è calato da sempre un silenzio che è inquietante, fuorviante sul piano storico. Per fortuna che c’è un Finetti che scrive e una casa editrice che pubblica. A futura memoria.