Raramente ci si annoia leggendo un libro di Stefan Zweig, l’autore di Paura, Momenti fatali e Bruciante segreto, per citare solo pochi suoi titoli; e meno che mai ci si annoia con Kleist, perché non si tratta tanto di una biografia organizzata per tempora, ma di un saggio strutturato per rubriche tematiche, che ripercorre la vita prematuramente troncata — appena trentaquattro anni — di von Kleist, il grande poeta romantico tedesco. 



Questo ritratto in forma di saggio, pubblicato per la prima volta nel 1925 nel volume La lotta col demone (Hölderlin, Kleist, Nieztsche), cerca di scandagliare il mistero costituito dalla vita breve e tormentata di von Kleist, un’anima che non trovò mai la pace dai suoi dèmoni interiori. Le parole ricorrenti e i concetti che ritornano con maggiore frequenza in queste pagine sono infatti passione, caos, slancio prometeico, eroismo, dismisura, abisso, titanismo, forza distruttiva, sconvolgimento, eccesso, esagerazione, frenesia, ardore, furia, fuoco. E proprio di puro fuoco sembra esser stata l’anima del giovane poeta. Paradossalmente, pochissimo conosciamo della sua parvenza fisica, del suo volto (di lui non abbiamo che due ritratti, per giunta piuttosto scialbi); e assai poco della sua sovrabbondante ricchezza interiore egli riusciva a comunicare a chi lo circondava: così, nessuno si rendeva conto che, sotto la dura scorza di un temperamento all’apparenza opaco, poco comunicativo, per nulla incline alla socievolezza mondana, muto nelle occasioni conviviali, così diverso dal riposato equilibrio con cui Goethe, quasi dall’alto, guardava alle passioni umane, si celava uno spirito capace di profondità abissali. 



Ma quello che imponeva a Kleist il silenzio era, secondo Zweig, “un’invincibile castità del sentimento” (p. 15), un perfezionismo teso fino allo spasmo nella sua ricerca di gloria, di assoluto, nella sua ambizione per raggiungere i vertici dell’arte, ma anche i picchi della profondità nei rapporti umani. E il silenzio del poeta, “quel suo silenzio sordo, meditabondo, pesante, in cui stava per ore e ore in mezzo agli altri, fu l’unica cosa che gli uomini notassero in lui; e, anche, una certa assenza dello spirito, un essere annuvolato in mezzo al giorno chiaro” (ibid.). 



La ricchezza interiore strabordante di Kleist faticava a comunicarsi al prossimo e si traduceva in una perenne inquietudine, in una ricerca affannosa e senza costrutto di un ubi consistam. E l’elemento che più colpisce del volume di Zweig, e su cui ritornano le sue pagine, a volte con il rischio dell’effetto ripetizione, è proprio la cura con cui vengono annotati gli eterni viaggi attraverso la Francia, la Germania, la Svizzera, il girovagare senza fine e senza esito di Kleist, sempre animato da una smania che non sa dirigere verso una finalità costruttiva, continuativamente proteso com’è verso progetti troppo grandi per lui, verso un’ambizione che, persino nel momento in cui si propone di concepire piani quieti ed ordinati, quando si prefissa di dedicarsi all’agricoltura, di comprare una fattoria, di diventare un placido possidente impegnato a far fruttare i propri campi, ha sempre lo stigma della furia, dell’eccesso, dell’incontentabilità: in una parola, dell’amarissimo, cocente fallimento.

Questa inquietudine tocca l’apice nella morte, in quel doppio suicidio che Zweig connota come il paradossale capolavoro di Kleist: “Altri poeti hanno vissuto più grandiosamente, hanno fatto opere di più vasta portata, più legata alla vita, promuovendo e trasformando con la loro personale esistenza le sorti dell’universale; ma più magnificamente di Kleist non è morto nessuno (…): la vita più tormentosa che mai uomo abbia vissuto, finisce come una festa sacrificale dionisiaca” (p. 81). 

Carattere notevolissimo del volume è la singolare impennata, in termini di spazio, di ampiezza e di dettagli, che Zweig dà al racconto nella sua ultima sezione, dove arriva a narrare la morte di Kleist, quella morte così straordinaria. Come ricorda l’autore, l’idea della morte accompagnò Kleist fin dalla prima infanzia; se, da buon prussiano ordinato e organizzato, egli si era fatto un “piano per la vita” (sentendo poi acutissima la pena di esservi impari), parimenti, il giovane romantico si era fatto un piano per la morte; ambiva a una morte magnifica, e non da solo, tanto che, a tutti coloro che gli erano cari egli offrì, in momenti diversi, quasi a testarne la superiore fedeltà al sentimento che li legava, la sua compagnia per il definitivo salto nel buio: prima a Karoline von Schiller; poi all’amico Rühle, cui scrisse, con parole appassionate quant’altri mai, per proporre una specie di nerissima, sublime avventura: “Non mi vuole uscire dalla testa l’idea che dobbiamo fare ancora qualcosa insieme: vieni, facciamo qualcosa di buono, e, con questo, moriamo! (…) È come passare da una stanza in un’altra”. Sino a che, a rispondere all’appello è una donna malata, divorata dalla malattia, già vicina alla morte, un’anima bella, una “sentimentale vaporosa” (p. 79). 

Balza all’occhio, più ancora che nelle grandi biografie (una su tutte, Maria Antonietta), una sorta di profonda adesione interiore con cui Zweig racconta gli ultimi momenti nella vita del giovane poeta prussiano. E nulla può distogliere il lettore dalla singolare suggestione, dalla convinzione che la passione, quasi la profonda identificazione che trapela da queste pagine, trovi la sua motivazione profonda nel riconoscimento di un’affinità di fondo: quasi vent’anni dopo aver narrato la morte di von Kleist, infatti, anche Zweig, morì suicida, in Brasile, insieme con la moglie Lotti.

 


Stefan Zweig, “Kleist”, Castelvecchi, Roma 2016.