“Ecco cos’è la mafia. Un conto è studiarla, un conto è vedere quello che ha provocato”.
Questa frase, comunemente attribuita a san Giovanni Paolo II, fu pronunziata subito dopo l’incontro che egli ebbe nel palazzo vescovile di Agrigento il 9 maggio 1993 con i genitori del giudice Rosario Livatino. Quell’incontro, dettagliatamente ricostruito nel recente libro del giornalista Roberto Mistretta Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente (Ed. Paoline, 2015) fu l’elemento scatenante della vibrante invettiva che poco dopo il Papa pronunziò nella Valle dei Templi e che segnò una svolta, un punto di non ritorno, per la lotta alla mafia.
La figura di Rosario Livatino a distanza di 25 anni è tornata prepotentemente alla ribalta non solo perché in molti sperano in una positiva conclusione del processo di beatificazione, ma soprattutto perché esprime, pur dopo tanti anni dalla sua uccisione, una testimonianza nella lotta alla mafia di assoluta chiarezza e attualità. Quella di un professionista seriamente impegnato con il suo lavoro di giudice e di cristiano “convinto e maturo” che non voleva essere un eroe, “ma compiere semplicemente il suo dovere coniugando le ragioni della giustizia con quelle di una profonda fede cristiana”, come ha detto l’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi commemorandone la figura alla Camera nel settembre scorso.
La figura di Rosario Livatino è ormai associata all’appellativo di Giudice ragazzino a partire dal libro scritto da Nando dalla Chiesa e dal titolo del film di Alessandro Di Robilant.
Tale identificazione, che ha ormai una valenza tutta positiva ed affettuosa, nacque da un’improvvida dichiarazione di Francesco Cossiga che, pur non facendone il nome, scrisse otto mesi dopo l’omicidio: “Non è possibile che si creda che un ragazzino, sol perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga….. A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna…”. Ci vollero dodici anni perché Cossiga correggesse il tiro di quelle dichiarazioni, ma ormai il termine era stato coniato e poi fortunatamente riportato nei termini positivi in cui tutti lo ricordiamo.
Di quell’omicidio colpì immediatamente l’efferatezza delle modalità (fu prima ferito in macchina e poi “finito” dopo un tentativo di fuga in una scarpata, con due pistolettate in volto). Per molti Livatino era un nome sconosciuto, ma quando tutti appresero la delicatezza dei processi che stava istruendo si chiesero perché non gli avessero dato la scorta.
In un momento storico come quello che stiamo vivendo a Palermo, con magistrati e politici che si muovono in città con numero di persone di scorta a due cifre, dovrebbe far riflettere la risposta che in più occasioni diede a parenti e amici: se mi succede qualcosa è meglio che muoia uno solo, piuttosto che dei padri di famiglia che fanno solo il proprio dovere. Era questo il motivo per cui non dava mai passaggi in macchina ai tanti amici.
Il riconoscimento di un miracolo operato in favore della signora Elena Canale Valdetara nulla aggiunge al giudizio sulla sua persona e sul valore del suo sacrificio, che lo pone a giudizio di molti allo stesso livello di quello di don Pino Puglisi (settembre 1992) o di don Peppino Diana (marzo 1994).
Il sacrificio della vita di queste tre persone ha fatto emergere la questione del rapporto tra martirio civile e martirio cristiano, cui sottende la questione fondamentale del dibattuto tema dei «martiri per la giustizia» e dei «martiri per il sud». In altre parole: che hanno da spartire i testimoni della fede cui abbiamo fatto riferimento con gli eroi della società civile?
Per comprendere l’importanza e l’origine di tale dibattito bisogna tornare a quanto accaduto nel 1982, allorché il papa polacco additò in san Massimiliano Kolbe un «martire dell’amore» più e prima ancora che della fede. L’Osservatore Romano, il 7 ottobre 1982, proprio in riferimento a Kolbe con un articolo non firmato — e appunto per questo, secondo qualche commentatore, ancor più autorevole — consegnò ai teologi l’impegno di ridisegnare «il profilo esatto del martirio moderno», per giustificare la scelta del pontefice, necessaria per mettere i cristiani del nostro tempo nella condizione di riprendere in considerazione «con coscienza e coerenza la piena attualità del martirio». Da qui, negli anni successivi, prese forma una martirologia “inclusiva”, nella quale sono rientrati, secondo le indicazioni dello stesso Giovanni Paolo II, quelli che di volta in volta egli ha chiamato «martiri della carità», «martiri della pace», «martiri dell’ateismo» e, proprio in riferimento al sacrificio di uomini del Sud Italia come Livatino, Puglisi e Diana, «martiri della giustizia».
“Si tratta — ha scritto il teologo don Massimo Naro — di nuovi tipi di martiri e di martirii che sono soltanto ‘indirettamente’ riconducibili al motivo classico della fede professata dalla vittima e osteggiata dai carnefici, ma che lasciano intuire efficacemente la circolarità teologale — con l’amore e con la speranza — in cui la fede stessa viene così vissuta più che semplicemente proclamata … dando luogo a tutta una serie di concrete azioni di giustizia che in certi contesti risultano, per chi non vive di Cristo, delle insopportabili e imperdonabili provocazioni e costituiscono l’intenzione radicale e il motivo fondamentale della martiría, di chi testimonia — fino a patire la morte — la propria fedeltà a Cristo”.
Salvaguardare la distinzione tra martirio civile e martirio cristiano senza esasperarla è, tuttavia, difficile. Per riuscirci bisogna ricomprendere il senso del martirio cristiano nel quadro della moderna secolarizzazione in terre come quella europea, ove la possibilità di essere uccisi a causa delle proprie convinzioni religiose è ritenuta dai più altamente improbabile. Ed invece le vicende dei tre martiri prima citati mette in discussione tale convincimento, perché essi hanno dimostrato che anche nel nostro attuale contesto il martirio non cessa di essere possibile, ma anzi diventa “necessario” per continuare a segnare con tratti peculiari il volto del cristianesimo ecclesiale. Ciò che si rende urgente è allargarne il senso, senza inflazionarne la qualità, “dilatare l’identità dei martiri — come spiega ancora Naro — considerandoli come coloro che, oltre a dare la vita per un ideale e persino per qualcuno, muoiono ‘con’ Qualcuno, venendo coinvolti nel martirio stesso di Cristo”.
Questo dibattito, che si rese particolarmente vivo in occasione della beatificazione di don Pino Puglisi, la cui figura fu da tanti affiancata a quelle di Falcone e Borsellino ponendo al tempo stesso il problema di marcarne le differenze per smarcare l’identità dei martiri dal concetto del martirio, tende a distinguere debitamente il concetto dall’identità, la quale rispetto al primo ha un profilo certamente meno astratto, più marcato e radicale e, perciò, esistenzialmente più esigente. Questa nuova concezione del martire tende a dilatare la sua identità, superando la mera identificazione con un’idea e con un ideale, pur nobilissimi, per sottolineare ed evidenziare, sulla base di alcuni vissuti concreti, una teologia della testimonianza cristiana.
Questa testimonianza risulta evidente nel sacrificio di Rosario Livatino. Come ha gridato Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, appare dunque chiaro che il martire cristiano non è soltanto chi dà la vita a motivo della fede, come il martire civile non è soltanto chi viene ucciso per la giustizia. Anche il martire cristiano, in fedeltà a Cristo, può morire per la giustizia. E anche il martire civile può ritrovarsi associato a Cristo.
Nel caso di Livatino ha assunto evidenza e chiarezza una circostanza apparentemente marginale, risultata invece decisiva anche nel processo di beatificazione in corso. Ci riferiamo alla sigla STD che fu ritrovata su tanti documenti in possesso del giudice e che all’inizio gli inquirenti scambiarono come una cifra per indicare un possibile mandante dell’omicidio. Si trattava più semplicemente della sigla «sub tutela Dei», la stessa con cui i magistrati durante il medioevo contrassegnavano le loro sentenze, affidandole al superiore giudizio divino.
Era il marchio che Livatino non solo imprimeva ai suoi scritti (per la prima volta lo si trova nella sua tesi di laurea), ma attraverso essi a tutta la sua vita. Per comprendere questa sigla, ha spiegato padre Giuseppe Livatino, che è il postulatore della causa di beatificazione, bisogna andare alla radice del verbo latino tueor, che esprime anche il concetto di sguardo. Ed era questo l’impegno di vita del giudice Livatino: far bene il giudice, non solo per le competenze indubbie che tutti gli riconoscevano, ma per lo sguardo di Dio sotto cui poneva ogni azione della sua vita.
Ciò che chiarisce meglio questo aspetto è il suo concetto di giustizia. Fermamente convinto del valore e dell’importanza dell’amministrazione della giustizia, riteneva sempre che l’ultima parola fosse poi quella della carità. Significativo in tal senso quanto scrisse il 18 luglio del 1978: “Ho prestato giuramento; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige”. E’ evidente che l’educazione cui faceva riferimento era quella cristiana.
Più avanti negli anni in una conferenza scrisse: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Quella conferenza termina con una pagina che afferma la coincidenza finale, per il cristiano, di giustizia e carità: “I non cristiani credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità”. Il collegamento tra la giustizia e la carità lo portò all’impegno civile per la promozione della legalità e dell’onestà.
Nel decennio in cui fu sostituto procuratore della repubblica ad Agrigento (1979-89), pur occupandosi delle più delicate indagini di mafia, aveva lasciato scritto: «La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali». La sua è stata, come ha detto anche papa Francesco nell’udienza al Consiglio superiore della magistratura, nel 2014, «una testimonianza esemplare, fu un giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana».