Don Andrea Santoro, il prete romano ucciso in Turchia esattamente dieci anni fa, mi affascina forse perché prima di partire per quella parte del mondo era parroco vicino a casa mia, anche se quasi non lo conoscevo. Come accade per i santi, compresi attraverso altri che razza di cristiano fosse. Ammetto che in questo caso la mia fonte testimoniale a suo favore è un po’ particolare perché si tratta del Papa di allora, Benedetto XVI.
Stava preparando il viaggio in Turchia e don Andrea, senza prevedere quello che sarebbe successo, pochi giorni prima della sua morte gli aveva scritto una lettera dove diceva che «il mio gregge è formato da 8-9 cattolici ma, santità, una sua visita se pur rapida, sarebbe di consolazione e di incoraggiamento». E univa un messaggio di tre donne — ortodosse — di quel gregge dove si aggiungeva che avrebbe dato loro un’immensa felicità stare con lui — cioè con il Papa — per «parlare un po’ faccia a faccia».
Il retroscena della lettera venne rivelato dallo stesso Benedetto XVI durante l’udienza generale avvenuta mercoledì 8 febbraio, quello successivo all’assassinio e io, per caso, c’ero. Dire che quella faccenda ha del paradossale è essere minimalisti. Un prete vive isolato in un grande Paese musulmano con meno di dieci fedeli e dà importanza a tre di loro — tre donne venute dalla Georgia e che neppure sono cattoliche — perché avrebbero voluto avere il Papa come ospite. Il prete cioè non aveva spiegato “alle pecore” che la richiesta era fuori luogo, ma piuttosto aveva tradotto la loro lettera e l’aveva mandata in Vaticano sapendo che per Dio otto o nove è uguale a cento, visto che c’è una parabola del vangelo a spiegarlo. Poco dopo, il pastore delle otto o nove pecorelle veniva ucciso da un sedicenne mentre pregava in chiesa. Allora non c’era l’Isis ma Ouzhan Akdil, così si chiamava, confessò poi di aver sparato al prete perché, inshallah, era sconvolto dalle vignette di un giornale danese che irridevano la sua religione: insomma l’Isis ancora non c’era ma noi europei già facevamo di tutto per farlo nascere.
Don Andrea, quando gli avevano sparato, era seduto all’ultimo banco della chiesa e pregava con la Bibbia tra le mani: il proiettile, dopo aver attraversato il corpo del sacerdote, si era fermato dentro le pagine di carta bruciacchiandole.
In un bellissimo libro dove si raccolgono le preghiere e gli appunti del prete romano fidei donum a Trabzon, don Andrea scrive: “Vorrei, dopo la mia morte, continuare a fare del bene agli altri, anche se in un modo diverso”. In questi anni sta accadendo. Papa Benedetto ha parlato di lui come ho raccontato; Ruini disse che si sarebbe cominciato il processo di beatificazione; di lui, il primo aprile 2015, ha parlato anche Papa Francesco chiamandolo “martire” dal momento che nel processo regolare svolto dal suo paese, il ragazzo che lo ha ucciso lo ha inconsapevolmente canonizzato avendo dichiarato di averlo ucciso “pensando fosse Gesù Cristo”.
Questa sera, per la prima volta, Vallini celebrerà per lui a San Giovanni in Laterano e magari annuncerà qualcosa in proposito.
E io mi ritrovo che don Andrea mi viene incontro. Come fosse tutto fuori da sé, come se per conoscerlo dovessimo ascoltarlo, seguirlo, nelle sue relazioni con Dio e con gli uomini. Un uomo con l’anima sulla bocca, nelle mani e nei piedi. Uno che non risparmia nulla di sé. Il bello e il brutto. Il riuscito bene e il fallimento. La certezza e il dubbio. I sì e i no. Finisco con una citazione tratta dal suo diario: “penso che non ci sia dolore più grande di una gioia che non è gioia per gli altri e che tu non puoi condividere”. Lo so, queste non sono cose da scrivere in un articolo, perché sono troppo forti. Ma questo articolo è un grazie a don Andrea e vorrebbero essere un suo ritratto. Ritratto di sacerdote: un uomo vero.