Politicamente scorretto o, meglio, come si definiva egli stesso, parafrasando il Poeta “A Dio spiacente e a li nemici sui”: Giovannino Guareschi, nella sua lunga carriera di giornalista, scrittore, disegnatore e polemista era finito spesso nei guai. Ma di essere finito nelle peste con la Cia (sì, avete capito bene: la Central Intelligence Agency americana) Giovannino non se lo sarebbe mai aspettato e, per buona sorte sua, probabilmente non lo ha mai saputo, altrimenti, chissà come avrebbe reagito.
Il fatto risale agli inizi del 1953. A Hollywood l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences sta discutendo su quali siano i film da inserire nelle nomination per l’Oscar di quell’anno. Ebbene, ai primi posti nella lista per l’Award onorario destinato al miglior film straniero c’era “The little world of don Camillo”, versione americana del primo film tratto dai racconti guareschiani con la regia di Julien Duvivier, che aveva avuto un grandissimo successo nelle sale americane, complice, forse, anche il fatto che la voce narrante fosse quella del grande Orson Welles. A Hollywood esisteva, presso la Paramount, un Ufficio Censura Nazionale ed Estera, ai vertici del quale stava un certo Luigi G. Luraschi, italo-inglese che, oltre ad essere il responsabile del benestare alla proiezione di certi film negli Stati Uniti, era anche il contatto della Cia nel dorato mondo hollywoodiano. Luraschi era, insomma, colui che doveva segnalare la pericolosità, soprattutto a livello politico, di certi lungometraggi e fare in modo che, qualora fossero produzioni ancora in nuce, non vedessero mai il primo giro di manovella, qualora fossero film già in programmazione, non ottenessero alcun riconoscimento, da parte della critica ufficiale e, men che meno, venissero premiati.
Di come andarono le cose, ci informa il giornalista David N. Eldridge che racconta, appunto, di come Luraschi fece in modo di estromettere il film “The little world of don Camillo” dalle nomination all’Oscar 1953: “Sfruttando la sua posizione all’interno dell’Academy, Luraschi si adoperava affinché i film di matrice “leftwing”, ovvero di sinistra, o “sospetti” già prodotti non ottenessero vasti riconoscimenti o guadagnassero l’appoggio dell’industria (cinematografica, ndr). Dichiarò di essere stato determinante nell’assicurare che “Mezzogiorno di fuoco” fosse alla fine passato nella categoria dei migliori film per l’Academy Award e suscitò forti dubbi a proposito dell’Oscar come miglior film straniero a “The little world of don Camillo” di Julien Duvivier. Comunque, prestò anche grande attenzione affinché i film contenenti espliciti messaggi anti-comunisti fossero trattati con cautela, rispondendo ai dettami della Cia che la cultura americana doveva essere usata per esportare i “valori americani” contrapponendo il capitalismo democratico come alternativa ideologica al comunismo sovietico.
Nella lettera 14 (dell’archivio Margaret Merrick Library) pone l’attenzione su: “Francesco giullare di Dio” di Roberto Rossellini, l’adattamento di Duvivier del “Mondo piccolo di don Camillo” di Giovannino Guareschi e la potenziale produzione de “La figlia di Jorio” di Gabriele D’Annunzio. Tutti film italiani e tutti, dichiarò, anticlericali nei toni o nel contenuto.
Uno dei primi timori nella Guerra Fredda fu quando il Partito Comunista venne battuto di stretta misura nelle elezioni italiane del 1948. Così Luraschi si preoccupava evidentemente delle vie attraverso le quali i comunisti potevano usare i problemi sociali evidenziati in alcuni film come propaganda antiamericana. Era incline a prender le parti dell’Ufficio Cattolico Internazionale per il cinema che ancora nel 1953 avvertiva i produttori che “Se avessero presentato un ritratto degenerato dell’Occidente, avrebbero aperto le porte alla propaganda comunista. Molte persone avrebbero cominciato a credere che se la rigenerazione morale non fosse considerata possibile, si poteva guardare ad Oriente”.
Insomma Luraschi, cattolico, si direbbe oggi, fondamentalista, non solo riteneva troppo a sinistra il “Don Camillo”, ma addirittura bollava il film come anticlericale! Le sue lettere ad Owen, il contatto diretto all’interno dell’Agenzia, sono a dir poco emblematiche. Ecco quella del 23 febbraio 1953: “Caro Owen…. Penso che siamo riusciti a lasciare fuori The little world of don Camillo cosicché non abbia l’Oscar come miglior film straniero. In realtà non credo, personalmente, che il film sia così politicamente pericoloso, ma i Leftists (i giurati dell’Academy simpatizzanti della sinistra, ndr) erano talmente intenzionati a fargli avere la nomination – stavano addirittura facendo una sorta di votazione privata al loro interno – che certamente vedevano un grande vantaggio dal fatto che questo film ottenesse l’Oscar, ecco perché ho lavorato contro il film. Presumo che (ciò che interessava ai Leftists, ndr) sia perché la fine del film potrebbe indicare che sia possibile per i Comunisti e gli “altri” vivere felicemente insieme”.
L’uomo della Cia, dunque, vuole escludere il film italiano dall’elenco dei possibili Oscar, perché, a quanto pare, la storia raccontata nel “Don Camillo” solletica l’interesse dei simpatizzanti di sinistra, lasciando intendere che, in fondo, si poteva trovare un modus vivendi, fra comunisti e cattolici, appianando i contrasti. Ma la certezza di essere riuscito nell’intento Luraschi la ebbe solo 10 giorni prima della cerimonia degli Oscar. Ecco la lettera che scrisse ad Owen il 10 marzo 1953: “Ho fatto un gran lavoro personale con i membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences riguardo il premio al miglior film straniero. In un precedente rapporto ti avevo indicato come i Leftists fossero ansiosi di assegnare il premio a The small world of don Camillo (il titolo è scritto errato nel testo originale, ndr). Volevano accentrare l’attenzione sul fatto che il Comunismo e il resto del mondo possono stare insieme. Penso che li abbiamo sistemati. In sostanza abbiamo messo in fila abbastanza persone da indicare con un voto a pioggia che l’Oscar deve andare a Forbidden games (in italiano Giochi proibiti di René Clément che vinse di fatto l’Oscar, ndr), il film francese e non a Camillo“.
Dunque, missione compiuta. Il lungometraggio tratto dai racconti di Guareschi, che erano stati emendati nella traduzione americana da quelli che rendevano simpatica la figura di Peppone ed avevano visto anche drasticamente ridimensionati i dialoghi con il Cristo, cosa che non era avvenuta così radicalmente nel film, nonostante la censura operata dai Centri Cattolici Cinematografici, era stato di fatto “epurato” dalle nomination per gli Academy Awards.
Un solo uomo, Luigi G. Luraschi, era riuscito ad influenzare la giuria? Stando alle dichiarazioni dello stesso Luraschi parrebbe di sì, ma, in realtà, come scrive Eldridge, l’agente della Cia non era solo, giacché anche una parte della critica statunitense aveva, del lavoro di Duvivier, un’opinione dello stesso segno. Questo è ciò che apparve nel “Bosley Crowther’s review” sul New York Times l’11 gennaio 1953: “Un’analisi più accurata del film rivela che il conflitto, nella sua essenza, non è fra dottrine socio-religiose, ma fra le personalità di due uomini caparbi. Mentre il prete (don Camillo, ndr) è chiaramente spinto dal suo intimo sentimento di rettitudine morale e dall’indignazione per l’affermazione dei comunisti nel paese, atteggiamenti che riflettono indiscutibilmente il suo robusto credo religioso e la sua disciplina, egli non è uno specchio fedele delle politiche della Chiesa di Roma. E il sindaco (Peppone, ndr) mentre indossa l’etichetta di comunista, non ha apparentemente legami con lo “Zio Joe” (nomignolo che gli americani avevano affibbiato a Stalin, ndr). Egli è soltanto un campagnolo dalla testa dura, che vuole essere d’aiuto alla gente del suo paese. Ma benché né il prete, né il sindaco siano dei veri teorizzatori di ideologie e il conflitto fra questi personaggi forti sia fatto solo di contrasti causa il loro orgoglio e zelo personali, eliminando così ogni significato politico, rimane una grande pretesa di buon insegnamento in questa felice filosofia. A causa di tutto ciò, il messaggio che esce da questo divertente film è che la gente sia, sostanzialmente, onesta ed amichevole, nonostante i pregiudizi radicati e gli stimoli egoistici che ha”.
Ovvero, che i comunisti e gli “altri”, come affermava Luraschi, possono vivere felicemente insieme. Dunque, dovremmo concludere che ciò che rimproveravano a Guareschi i comunisti italiani fosse gradito ai loro “colleghi” Leftists americani.
Come non bastasse l’incidente con la Cia, poco tempo fa ne è emerso un altro, di segno assai simile, risalente a una dozzina d’anni dopo: nel 1965 il professor Mario Manlio Rossi, docente di filosofia e letteratura all’Università di Edimburgo, propose l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura proprio al papà di Peppone e don Camillo, scrittore di indubbio successo, tradotto in tantissime lingue, venduto a milioni di copie, autore di sceneggiature cinematografiche di straordinario successo ben al di fuori dell’Europa.
Guareschi, però, in quegli anni era vittima di un ostracismo bipartisan – come si direbbe oggi – sia dal governo monocolore Dc che dall’opposizione comunista. Dunque, di nuovo e come sempre, “A Dio spiacente e a li nemici sui”. Morale, quell’anno il Nobel per la letteratura se lo aggiudicò lo scrittore russo Šolochov, autore de “Il placido Don”, guarda caso lo stesso titolo della rubrica che Giovannino teneva sul “Candido” per parlare del Po che scorreva, al pari del Don, in terra comunista. Sta di fatto che Šolochov era autore di un romanzo dal titolo “Terre dissodate” che parlava appunto della Russia comunista e della “terra ai contadini”.
Candidato all’Oscar, candidato al Nobel, Guareschi non vinse alcuno dei due premi ma, a differenza di “Giochi proibiti” e di “Terre dissodate” (che i premi li vinsero) “Don Camillo” ancor oggi se lo ricordano tutti: il libro come il film e, ne siamo certi, sarà così ancora per tanto, tanto tempo. Altro che Oscar e Nobel!