Ci eravamo visti costretti a “pensar male” già qualche giorno fa sul caso Apple: quando Bill Gates, già fratello di latte del compianto Steve Jobs, aveva preso le parti degli “sbirri” dell’Fbi contro i nerd di Cupertino. Anche il presidente Barack Obama — asceso e riconfermato alla Casa Bianca sulle tracce sicure del politically correct — aveva un po’ stupito. D’accordo, a San Bernardino il cocktail è stato davvero micidiale: sparatoria mortale in un centro per disabili, ammantata dai veli cupi del fondamentalismo islamico. Resta però il fatto che lo zelo nel pretendere da Apple la resa incondizionata sulla privacy di un device attualmente diffuso presso un miliardo di abitanti del pianeta Terra è parso un po’ troppo per un presidente afro-democrat, Premio Nobel per la pace. Un po’ troppo anche per un presidente che pure ha digerito e fatto digerire tutto: che a fine mandato non ha ancora chiuso Guantanamo, che ha intercettato miliardi di telefonate, che ha disastrosamente mischiato carte e dollari e confuso acque, petrolio e soprattutto sangue sullo scacchiere mediorientale.



Mancava la Corte Suprema, magari un po’ ammaccata dalla strana morte del justice Antonin Scalia, in un più che strano weekend di caccia in Texas di una stranissima confraternita. Però la Corte Suprema, almeno al cinema, uno continua a immaginarsela come la custode di tutte le Libertà maiuscole della “democrazia in America” tocquevilliana: a cominciare dalla “libertà di parola” del primo emendamento. Beh, quella Corte Suprema l’altro giorno ha appioppato ad Apple una sberla da 450 milioni di dollari. 



D’accordo, procedimento schedulato da tempo. D’accordo, appello ultimo di Apple contro una transazione già accettata in caso di giudizio definitivo sull’ipotesi di “cospirazione” anticoncorrenziale contro Amazon. Nel 2010 l’Ipad sfida con successo sul mercato il dominio di Kindle, che offriva e-book a prezzi veramente low: troppo low per cinque editori che invece avevano trovato da Apple margini di editoria digitale meno soffocanti. Troppo facile, aveva alla fine sentenziato (ma non all’unanimità) una corte d’appello del secondo circuito di New York nel 2015: violazione delle norme antitrust da parte della Mela, condanna a maxi-risarcimento. Salvo, naturalmente ricorso finale alla Suprema Corte. Che ieri però non ha neppure esaminato l’istanza: respingendola “without explanation”, senza spiegazioni, ha subito puntualizzato il New York Times.



Anche noi, lontani sei fusi orari da Manhattan e nove dalla Silicon Valley, continuiamo a non avere trovare molte spiegazioni per questo bombardamento di establishment sul produttore di iPhone e iPad. Un pressing che — ogni giorno che passa — assume sempre più contorni mediatico-istituzionali. Sono i più ad essere essere convinti che l’Fbi e gli altri apparati di sicurezza degli States non abbiano difficoltà alcuna ad accedere a un iPhone. 

Probabilmente sono già entrati anche in quelli sequestrati sulla scene of crime californiana. E’ vero che una violazione abusiva presenta problemi di utilizzo giudiziario e che servirebbe un precedente esemplare, ma l’argomento non sembra ancora esaustivo. Sembra esserci dell’altro: forse la volontà dell’establishment washingtoniano di mostrare muscoli giustizialisti in nome della homeland security di fronte al maremoto populista, apparentemente inarrestabile, impersonato da Donald Trump. O forse i pesi massimi della New-New Economy hanno banalmente ingaggiato un ennesimo regolamento di conti e il power game permanente all’interno della Corte Suprema, stavolta ha punito Apple versus Amazon (ma anche versus Microsoft). Ma vista da lontano quest’America 2016 sembra aver ancora bisogno di parecchie spiegazioni.