Tra i peggiori errori che può commettere chi legge un poeta c’è quello di tirarselo dove gli pare. Ma un genio rimane un genio, e non lo prendi mai. Anche a Cesare Pavese è capitato di essere timbrato da mille banalizzazioni, e liberarlo è sempre un gesto coraggioso. Al saggio di Franco Ferrarotti Al santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, appena pubblicato da Edizioni Dehoniane Bologna, va il merito di raccontare la sua persona nel segno dell’insofferenza verso l’ambiente in cui è cresciuto: una cricca ossessionata dalle proprie convinzioni culturali e politiche, anticlericale fino all’insopportabile. «Ciò che forse non è stato capito dai contemporanei è che in Pavese — scrive Ferrarotti — era sempre presente e nel fondo, misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo “laicistico” allora dominante e lo spingeva invece allo studio dei grandi miti»: un pugno nello stomaco a chi per decenni ha assimilato lo scrittore a quell’élite torinese da cui proveniva e in cui tuttavia non si sentì mai a suo agio. «Forse nessuno ha colto la distanza che Pavese faceva valere, nel pieno della sua indicibile angoscia, in riferimento all'”allegro” Calvino, un aggettivo che, nel suo linguaggio, equivaleva a una pugnalata». Allegro infatti è chi, troppo preso dal suo fare, non sa che farsene dell’irrimediabile incompiutezza dell’esistenza: «Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?» (Il mestiere di vivere, 17 agosto 1950). 



Si è continuato a sproloquiare sull’impegno e sulla resistenza, sulla cultura e sull’azione, nel tentativo sempre più rumoroso di spegnere il valore supremo di «ciò che ogni uomo ha sperato e patito» (Gli dèi). Ma già sono cinquant’anni da quando proprio l’«”allegro Calvino”» l’aveva detta tutta: «Pavese non si capirà fin che non si vedrà che egli è definito sì dall’appartenere a quel clima, ma in opposizione ad esso». Che poi è il clima che ha permeato il nostro modo di pensare. Risolvere la vita in un orizzonte solo umano è troppo poco, però, per chi vive davvero, e tanto Pavese fu estraneo a quel laicismo che tra i suoi amici era invece religione che Ferrarotti ricorda «il suo a-marxismo, convinto che Marx avesse scritto il Capitale per persone che non erano mai state bambini. Ma di qui anche il rospo del mistero del divino, il bisogno di una trascendenza capace di dare valore alla miserabile, nuda, inerme e insignificante datità del pratico-inerte in cui gli uomini vivono immersi, disperati e nello stesso tempo anelanti verso un “totalmente altro”». Disperati, sì, con la sincerità di chi è trafitto dalla «fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate», e al tempo stesso indomabili, per questo «fastidio e scontento» (Le Muse) che tormenta tutti i geni e in fondo tutti gli uomini. Del resto, aveva ragione Flannery O’ Connor a dire che «se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe nessun senso».



È liberante, in questi tempi di minuscole dispute tra bande di ominicchi, sentir descrivere Pavese come «un laico che non cancella la religione come fatto sociale irrilevante né si crede un privilegiato particolarmente “illuminato” di fronte alla questione non tanto dell’esistenza o dell’inesistenza di Dio quanto del mistero di Dio, di questo rospo in gola che non va né su né giù». Dio non è un argomento di cui parlare, è un problema che brucia. Brucia come la certezza che «l’uomo non è un essere senza ragion d’essere. E avverte nel profondo un bisogno essenziale di immortalità». Chi ama lo sa bene: «Qui davvero vorrei credere in Dio per pregarlo. Che non muoia. Che non le accada nulla. Che tutto ciò sia un sogno. Che perduri un domani» (25 dicembre 1937).



Pavese vide finire la guerra, vide finire il fascismo, vide avverarsi i suoi obiettivi giovanili. Ma cosa ce ne facciamo? Vogliamo di più. A rispondere alla vita non sarà «il pane né il piacere né la cara salute» (Gli dèi). Non serve qualche particolare inclinazione mistica, perché «da sempre Pavese sapeva che tutto nasce dal basso, che il divino non va ricercato nelle alte sfere delle idee iperuranie, ma nella naturale esperienza quotidiana. In lui, il contadino langarolo vinceva sempre sull’intellettuale». Splendido. Vivere, basta «il mestiere di vivere», con le sue «umane incompiutezze», per rimettere l’uomo «di fronte al suo dolore e al suo mistero» (La selva). La sua opera è fin troppo chiara su questo: «il mondo, la vita in generale si valorizzano unicamente avendo l’animo a un’altra realtà, oltremondana. Diciamo, avendo l’animo a Dio. Possibile?» (5 aprile 1945). 

All’indomani del suo suicidio, mentre Il mestiere di vivere imbarazzava proprio il suo clan, don Luigi Giussani lo andava leggendo a lezione per documentare quell’insopprimibile esigenza di significato che chiamava “senso religioso”. Ovviamente «i marxisti non potevano sopportarlo», perché asportavano «il senso del mistero. Il grido del Cristo in croce, preso nei tormenti dell’agonia — “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” — è una domanda estrema, umana, semplicemente e forse troppo umana, in cui si concentra la consapevolezza tragica di fronte alla morte, e destinata a restare senza risposta. Pavese non si dava per vinto». Ha sempre chiesto troppo, col disgusto per le risposte fabbricate in proprio. È stato uno scrittore riuscito, e proprio perché riuscito, anziché gloriarsi per il proprio lavoro ripagato, gli urgeva conoscere chi gli dava meraviglia e dolore: «Questa tua profonda gioia, questa ardente sazietà, è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà?» (20 novembre 1949). Bisogna stare coi grandi, in questi tempi meschini.