Le animate discussioni di questi ultimi mesi sul disciplinamento legislativo della morale pubblica hanno fatto emergere la necessità di ridefinire i rapporti che legano esperienza religiosa, difesa dei valori e governo della società. Un rapporto, questo è ovvio, deve esistere. Ma si tratta di capire quale può essere, oggi, la sua fisionomia. Antiche certezze consolidate vacillano paurosamente. Si profila la necessità di correggere anche profondamente schemi di pensiero e di azione diventati ormai inadeguati. Occorre un lavoro coraggioso di verifica, in vista di una nuova ripartenza.
Lungo questo cammino, sarà saggia regola di metodo lasciarsi aiutare da chi ci offre parole, idee e chiavi di lettura per illuminare il presente, individuando i nessi possibili con il miglior domani che sia sensato augurarsi. Anche guardare alla storia attraverso cui si è passati per arrivare allo stato odierno di crisi può offrire un contributo prezioso per ricentrare la coscienza di ciò che siamo e capire cosa siamo tenuti a fare nel contesto della società plurale del nostro Occidente sempre più intimamente secolarizzato, avviato su linee di sviluppo distorte rispetto a quello che potevamo immaginare come un bene comune valido per tutti.
Una pista pregevole è stata tracciata da Paolo Prodi con la sua lunga attività di maestro degli studi storici dedicati alla genesi della modernità. Prodi è giunto a elaborare una visione di sintesi che ha trovato i suoi robusti punti di appoggio in opere come la monografia sulla “monarchia papale nella prima età moderna” (Il sovrano pontefice, 1982), nell’ambiziosa Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto (2000) e forse più ancora nel classico volume sulla storia del giuramento, accostato come uno dei pilastri portanti della “costituzione” profonda dell’intero universo medievale e moderno (Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, 1992).
I frutti di questa intelligente strategia di approccio alla complessità di una storia che è da guardare “in grande”, facendo leva sui processi di trasformazione più generali, si trovano ora brillantemente ricapitolati nel pamphlet pubblicato per i tipi de Il Mulino proprio nel corso dell’ultimo anno: Il tramonto della rivoluzione. Può essere una lettura molto istruttiva per chiunque desideri riflettere in modo serio sull’oscillazione plurisecolare dei rapporti tra Chiesa e società politica, con la forza sacrale del carisma religioso posta davanti alla “densità” ineliminabile del potere mondano, dotato dei suoi apparati di controllo e di norme costrittive.
Lo slogan esibito nel titolo del libro di Prodi discende da quella che può sembrare una forzatura paradossale: “Il problema fondamentale per la vita nostra e dei nostri figli è se l’Occidente conserva ancora il potenziale rivoluzionario che ha caratterizzato la sua storia nell’ultimo millennio”. Si potrebbe commentare che lo spirito “rivoluzionario” si è in realtà intrecciato, almeno fino agli snodi storici della “crisi della coscienza europea” sette-ottocentesca, alla tutela dell’ordine ideale fondato sull’equilibrio delle forze scaturite dal seno della cristianità tradizionale.
La proiezione verso il nuovo era sempre innestata sul tronco del rapporto con le radici. I “moderni” traevano la loro energia creativa dal dialogo con i giganti antichi, con la loro cultura e la loro etica. Si inerpicavano sulle loro solide spalle come nani, e solo così riuscivano a vedere più largamente intorno, imparavano a superare gli ostacoli e trovavano la strada per dominare il futuro.
Ma la cosa sostanziale è ora mettere in luce che il “potenziale rivoluzionario” di cui parla Prodi non è tanto la fantastica febbre di sviluppo economico-sociale, riscaldata dai fermenti dell’utopia politico-giuridica degli ultimi due secoli post-illuministi. Queste sono state solo le ultime accelerazioni di una capacità di continuo rimodellamento dell’esistente che, secondo Prodi, affonda la sua matrice primaria nelle fibre costitutive dell’Occidente, alle origini del volto più tipico del mondo moderno. Qui Prodi riprende le tesi del grande storico del diritto Harold Berman (Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino, 1998), che a sua volta aveva rilanciato i punti di vista di Eugen Rosenstock-Huessy (Out of Revolution. Autobiography of Western Man, 1938).
L’idea di fondo è che la “rivoluzione” dell’Occidente cristiano sia da identificare con lo sprigionarsi del senso di autonomia del potere sacerdotale, incarnato in primo luogo nel crescente primato del papato romano in quanto centro di gravitazione della cristianità. La svolta determinante coinciderebbe con i conflitti che lo contrapposero all’Impero e alle potenze degli stati secolari, sulla via del decollo della loro “solidificazione” politica moderna, parallela e interdipendente rispetto a quella della struttura della Chiesa. Nell’ambito dell’ordine sociale edificato nel corso del Medioevo si andavano ramificando due ordinamenti che iniziavano a distinguersi in modo più netto e coesistevano entrando anche in competizione tra di loro. Il riflesso più esplicito del contrasto può essere riassunto nella spaccatura creata dalla “riforma gregoriana” con la lotta per le investiture (secoli XI-XIII): il sacerdotium rivendicava la sua supremazia nel governo interno della comunione dei fedeli e nella scelta delle sue autorità, sganciate dall’essere semplice prolungamento di un unico potere sacralizzato esteso all’intero mondo umano.
Anche su questo si può discutere e precisare. Resta suggestiva l’ipotesi che la “rivoluzione papale”, riaprendo la tensione dialettica tra potere religioso e potere secolare, può essere vista, da una parte, come la rivincita inesorabile del dualismo neotestamentario e patristico-agostiniano delle origini cristiane, che aveva difeso i diritti di Dio in antagonismo con la pretesa di monopolio totalizzante dell’antico Cesare pagano. Dall’altro lato, ed è forse il fatto storicamente più fertile, il nuovo genere di conflitto tra sacerdozio e potere “cristiano” ha minato alle radici ogni pretesa di monismo che, per eccesso di unificazione in senso politico-religioso, annullava la distinzione tra le due città e portava a fare della Chiesa un tutt’uno con il cosmo umano. La norma cristiana rimase a lungo la regola di una legge civile inglobante. Sull’ordine dei peccati si fissò lo schema delle colpe perseguite dalla giustizia del Principe, ma sulla commistione dei “due fori” si distese l’ombra di un principio almeno vago di concorrenza.
Questo significa che già secoli prima dell’approdo al dualismo liberale tra Stato e Chiesa, nel cuore della stesso organicismo cristiano dell’ultimo Medioevo, il cosiddetto modello “costantiniano” allo stato puro era stato superato dalla storia. Si era inoculato il germe di una volontà di recupero della diversità, della specificità e, in ultima analisi, della libertà dall’ordine politico mondano dell’elemento religioso/ecclesiale. Con linguaggio ratzingeriano (e Prodi riprende più volte Ratzinger) si potrebbe dire che già nella cornice della cristianizzazione medievale si è ricreato lo spazio per un “bilanciamento dualistico”, estremamente fecondo, tra le due sfere della vita collettiva e i loro rispettivi poteri. Non si avallava nessunissimo regime di separazione. Ma contro le pretese di invadenza di un potere monolitico esposto al rischio di rendersi onnipotente, divinizzato, sul terreno della coscienza profonda dell’Occidente cristiano (solo qui, prima e più che nelle altre tradizioni di civiltà religiosa) si sono cominciati a innalzare argini robusti di difesa, introducendo forme di contrappeso riequilibratore. Si è risvegliato il senso di un pluralismo di livelli, di ordini di autorità e di mondi giuridici non coincidenti. E tutto questo ha consentito un lungo cammino di crescita fondato sulla negoziazione, sul contratto reciproco, sulla costruzione di sistemi di garanzia e di tutele incrociate, di cui ha beneficiato, alla lunga, l’io della persona individuale.
Ovviamente, il primo abbozzo non era ancora la pianta completa delle libertà del più maturo mondo moderno. Quello può essere visto solo come un lontano inizio: è ciò che ha reso possibile e poi nutrito il confronto, anche agguerrito, tra impalcature istituzionali stratificate e molteplici di gestione della vita degli uomini. Ne è derivata una dialettica che ha trascinato con sé tutte le ondulazioni di una storia laboriosa e contorta, a molte facce: con momenti di attenuazione del senso della diversità, fasi di distacco, riavvicinamenti e nuovi aspri conflitti. Dentro questa storia di continui bilanciamenti pendolari stanno le tendenze teocratiche del papato tardomedievale e i cesaropapismi degli stati protomoderni. Li intaccò il principio confessionale del cuius regioche, da metà Cinquecento, spinse a identificare religione del principe e religione dei sudditi, innescando, in senso opposto, i conflitti di giurisdizione accesi dall’attrito fra trono e altare. Alle dottrine antimachiavelliche del “principe cristiano” risposero, più avanti, l’offensiva riformatrice e le politiche di soppressione degli stati assolutisti, poi giacobini e napoleonici, al crepuscolo dell’Antico Regime.
La modernità è cresciuta sulla base di questa impossibile reductio ad unum di ciò che, d’altra parte, non poteva restare scisso in due storie completamente separate. Chiesa e società si integravano senza sosta, rischiando di appiattirsi l’una sull’altra. Ma nello stesso tempo si respingevano come due poli del medesimo campo di forze. Le teorie seicentesche sulla potestas indirecta della Chiesa nella sfera temporale, bilanciata dalla rivendicazione della sua libertas, sono l’anticipo teologico della lotta che ingaggeranno, nel secolo dei Lumi, i poteri secolari per riportare la Chiesa e la “Repubblica” ognuna dentro i propri “limiti”.
Da questo alveo fioriranno i dibattiti più recenti sulla regolamentazione dei rapporti tra i due ordinamenti reciprocamente sussistenti: i due lati della convivenza promiscua dei distinti, dentro l’unità solidale della storia umana. Dopo la crisi dello Stato moderno e la tempesta dei totalitarismi del Novecento, si arriverà, infine, a una piena chiarificazione della critica di ogni forma di degenerazione unilaterale di un potere sacralizzato che pretenda di porsi come unico arbitro della salvezza dell’uomo. La regola vale tanto per il potere civile, quanto per il governo dell’autorità religiosa.
La salvaguardia della distinzione dei due ordini è in effetti scomoda. Implica il negoziato, la rinuncia all’imposizione, da entrambe le parti, di uno schema di dominio inclusivo. Frena l’ingerenza autoritaria. Il pluralismo dei poteri, a fronte del sacro cristiano fondato sulla libera adesione volontaria, è l’argine insostituibile per la libertà di coscienza dell’individuo, che l’Occidente ha fatto germogliare insieme allo spirito della democrazia moderna e all’universalismo dei diritti. Abbiamo cercato di esportarli in modo non sempre felice. Dobbiamo ora tutelare questi doni da ogni rischio di rapina dall’esterno. Dobbiamo proteggerli dal riassorbimento in un modello arcaico di fondamentalismo unificatore, magari anche camuffato sotto le vesti luccicanti di una dittatura dei consumi che spegne il fuoco di ogni trascendenza aperta verso le dimensioni dell’Assoluto e schiavizza l’uomo dei desideri “a una dimensione” intrappolandolo nelle maglie del pensiero unico dominante.