Dopo aver pubblicato due o tre romanzi e un libro di racconti brevi per mettere a nudo la morte che il cinismo ha instillato nel cuore di chi crede di poter vivere bastando a se stesso, Nicola Campagnoli, insegnante in Ancona, torna sugli scaffali con una raccolta di poesie. Versi semplici, per dire le cose grandi che fanno la vita di tutti con parole piane e senz’ombra di retorica. Versi semplici, che vanno a fondo del dramma che è la vita quotidiana.
C’è il sentimento vertiginoso del vuoto che ti prende dopo che hai fatto di tutto per sistemare la giornata: «Si fatto tutto quel che si doveva fare/ E sembra che si è riusciti a star dietro/ A tutto quello che è accaduto/ Senza lasciar fuori o indietro o inevaso nulla/[…]/ Si ha anche quella certa soddisfazione/ Che viene dall’aver fatto tutto/ A dovere,/ Dall’essersi anche sacrificati/[…]/ Perché allora questo buco nel petto?/ Perché fa così male?».
C’è lo sguardo spento di chi da quel vuoto si lascia sopraffare: «Ci si isterilisce, si ispessisce la durezza della propria rassegnazione/ Il cinismo dello sguardo, si perde la speranza/ Non si spera più/ In niente».
C’è la fatica drammatica e semplice di chiedere aiuto: «La cosa più difficile/ Quando sei a terra/ È alzare il telefono/ E chiamare/[…]/ La cosa più impossibile/ È credere possibile/ che esista qualcosa di più grande del male/ Che stai vivendo».
Eppure, dal fondo di tutto, dalle profondità del male di vivere, prorompe un grido: «L’ingiustizia/ Che trama la mia vita/ E copre il mondo./ Perché una famiglia ha un figlio malato?/ E io no?/ Perché a me muore una persona cara?/ E a te no? /[…]/ Perché io ho avuto persone che mi hanno cresciuto/ E altri no?/ L’ingiustizia grida/ L’urlo/ Una voce senza termine/ Grida: perché?».
Un grido che, poco a poco, diventa preghiera: «Dammi la realtà così com’è/ Cioè tutto il tuo amore/ (la realtà così com’è è tutto il tuo amore) /[…]/ Dammi un po’ di pace./ Cioè la realtà così com’è/ (la pace è la realtà così com’è)/ Fammi sentire di volermi bene/ Così tanto/ Così tanto/ Che anch’io inizio a volermene un poco».
Fino alla scoperta che anche dal male, proprio dal male, può nascere una pace: «Io non son degno che tu entri a casa mia./ Sì è vero,/ Casa mia è un luogo inospitale/ E spinoso/ Casa mia è come il mio cuore,/ Non ci si sta/ Non ci si vive./ Ma Tu entri/ Vuoi entrare/ (e io ti lascio entrare, quasi non me ne accorgo)/[…]/ Sembra proprio che Tu sia a tuo completo agio/ A casa tua/ Qui dentro,/ E comincio a starci meglio anch’io,/ Comincio a dire anch’io:/ Non si sta male in questa casa».
Fino a che la vita può ricominciare: «Da muti, parlavamo/ Da balbuzienti (che eravamo) ora parlavamo/[…]/ Da menefreghisti, ora siamo pieni di attenzione/ Da indifferenti, appassionati/ Da cinici, bambini/ Ora siamo bambini/ Curiosi».
C’è tutto questo, e molto di più (tra l’altro, gli echi evidenti di Péguy e, per chi lo conosce, quelli più discreti di Bruno Cantarini, grande marchigiano morto poco più d’un anno fa), nelle poesie di Nicola Campagnoli, un uomo che guarda il mondo con gli occhi di un bambino (e che ha scelto, per il titolo, un’espressione tratta da un intervento di papa Francesco: «Quando si sperimenta l’abbraccio di misericordia, quando ci si lascia abbracciare, quando ci si commuove: allora la vita può cambiare, perché cerchiamo di rispondere a questo dono immenso e imprevisto, che agli occhi umani può apparire perfino “ingiusto”, per quanto è sovrabbondante»).
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Nicola Campagnoli, “L’amore ingiusto”, Itacalibri 2015.