Oggi è il Saint Patrick’s Days, la Festa di san Patrizio: un momento di gioia e di celebrazione per tutti gli irlandesi del mondo: da Dublino a Glasgow, da Manchester a Boston, da Toronto a Melbourne si indossa il verde e si inneggia all’Irlanda, la cara vecchia isola da cui partirono a centinaia di migliaia i poveri irlandesi nell’800 per sfuggire alla fame, alla carestia, all’oppressione politica e sociale. In patria e nelle comunità della diaspora si sta insieme, si canta, si balla. La festa di san Patrizio per la verità ormai viene celebrata in ogni dove, anche in assenza di autentici figli di Ibernia o di loro discendenti. E’ il caso dell’Italia, dove non c’è ormai città che non abbia il suo Pub irlandese, ove il 17 marzo esplode l’allegria, si beve birra scura e si ascoltare la musica tradizionale celtica che annovera sempre più estimatori. E’ il trionfo dell'”Irlandesità”, che non è principalmente una questione di nascita o di sangue o di lingua, ma è la condizione di chi è coinvolto nella realtà irlandese. 



Un coinvolgimento che non può restare al livello di birra e musica.

Amare l’Irlanda significa conoscere la sua storia, una serie di vicende drammatiche, gloriose, commoventi. Quella musica di violino e di bodhran non è fatta solo per entusiasmare e far battere mani e piedi, spesso racconta delle tragedie vissute nei secoli dagli irlandesi. 



Lontano dai pub italici e dalle parate newyorkesi, com’è il san Patrizio celebrato oggi nell’Isola di Smeraldo? 

In primo luogo, si potrà celebrarlo regolarmente a Dublino, dal momento che in extremis è stato revocato lo sciopero della Luan, il sistema di trasporti pubblico della capitale.

Poi è arrivato il messaggio ufficiale del presidente della Repubblica, Higgins. In questo anno 2016 in cui ricorre il centenario della Rivolta di Pasqua con cui la nazione proclamò l’indipendenza in un’insurrezione che venne schiacciata nel sangue dall’esercito britannico, era d’obbligo che nel messaggio al popolo irlandese Higgins rievocasse gli eventi tragici e gloriosi di cento anni fa. Il presidente ha sottolineato che l’eredità di quella lotta per la libertà oggi consiste nell’impegno per la parità di diritti e di opportunità per tutti. Un evidente richiamo alle questioni che hanno recentemente vivacizzato la scena politica irlandese, e avevano visto lo stesso Higgins manifestare senza troppe remore il proprio appoggio alla causa del same-sex marriage



Higgins ha concluso il suo messaggio augurale con un invito ai propri compatrioti all’impegno contro la povertà globale, la fame e i cambiamenti climatici. Niente meno. 

Il fervorino di Higgins è compatibile con l’Irlanda di oggi, che sembra avviata a diventare una delle “società liquide” della post modernità, con una cultura dominante alla rincorsa di ogni possibile espressione dell’ideologicamente corretto. 

Era per una società di questo tipo che combatterono gli eroi del ’16? Sembra un paradosso, ma dopo aver tanto a lungo lottato per l’indipendenza l’Irlanda attuale sembra tornata ad essere un paese colonizzato. Colonizzato da tutte le mode politiche e culturali che vengono dall’esterno, e non solo dall’Inghilterra.

Nulla a che vedere con ciò che gli irlandesi per secoli hanno fatto: difendere coraggiosamente le ragioni della terra, del legame famigliare, del diritto tradizionale, della fede, contro ogni sopruso. 

Peraltro, in questo Paese c’è un passato che sembra non passare, ferite profonde mai del tutto rimarginate. Proprio ieri, alla vigilia di san Patrizio, è stata vandalizzata nel cimitero dublinese di Goldenbridge la tomba di William Cosgrave, il primo leader del Free State, lo Stato Libero uscito nel 1921 dalla lunga lotta con l’Inghilterra. Cosgrave, uomo vicino a Michael Collins, era stato uno dei sostenitori del Trattato con gli inglesi, e uno dei protagonisti della guerra civile che lacerò il Paese. Cosgrave fu il sostenitore di una linea dura nei confronti di chi non accettava il Trattato, varando un decreto che prevedeva la pena capitale per chiunque fosse stato trovato in possesso di armi. Quest’atto portò alla condanna a morte di 77 persone, tra cui anche il segretario della delegazione irlandese che aveva stipulato il Trattato. Evidentemente, dopo cento anni c’è ancora chi non perdona a Cosgrave le scelte del tempo.

Tra antichi rancori mai sopiti e secolarizzazione galoppante, il destino dell’Irlanda resta in bilico tra il diventare una piccola, simpatica provincia periferica di un mondo globalizzato, e l’unica alternativa vera: ritrovare la propria anima.