L’anno nuovo ha portato alla poesia italiana un libro importante, che ha il grande merito di essere alto e al contempo accogliente per chiunque gli si avvicini, anche da profano.

Lingua madre raccoglie tutta la produzione poetica di Emilio Rentocchini in un volumetto elegante di 256 ottave (ciascuna ospitata sulla stessa pagina sia in dialetto sassolese che in italiano), curato con la consueta grazia da Incontri editrice. Chi già conosce l’opera intensa di questo poeta schivo e cordiale, che viene da quella fetta dell’Emilia stretta tra Modena e Reggio, l’ha accolto come una piccola festa, che permette di rileggere anche testi ormai introvabili da anni.



Non si tratta però, come segnala la precisa scelta filologica di non indicare la provenienza originale dei singoli componimenti, di una raccolta. Piuttosto, un denso corpo bilingue, che l’autore stesso traduce, o meglio volge all’italiano, come se ci tenesse a ripeterci le cose. Il ritmo concluso dell’ottava, dice lui, è un limite che ti permette di cercare la luce negli interstizi della lingua. Ma succede, vedendole e leggendole tutte così, le ottave, raccolte insieme come grani di un rosario laico, di accorgersi che la lingua prende un respiro lungo, e che la poesia diventa poema, come già nei tempi antichi da cui ha preso la sua misura. Un “poema concettuale”, lo ha definito Manuel Cohen. 



Certo, non c’è parola che non sia attentamente cesellata, in questi piccoli mondi conclusi che, tutti insieme, valgono una cosmogonia. Perfino i numeri lo dicono (ai matematici non sfugge che 256 è la radice quadrata di 16, la misura dei versi di una pagina di ottave in dialetto e italiano). Certo si sente un pensiero fondo, che si nutre di Leopardi e Maria Callas, del vento sulla campagna e delle piastrelle degli stabilimenti, che si dilata in uno spazio stretto, ma in tempi lunghi (questa poesia non ha fretta, spesso nata come ritmo nella mente, prima di essere trascritta sulla pagina). Eppure l’atto del pensiero — del concepimento — porta in sé una carne di parole, in cui il pensiero prende forma e sapore.



Definire Rentocchini un dialettale (nell’accezione restrittiva che ci hanno passato) è troppo poco; questa lingua che si vorrebbe relegata alla periferia è una voce più profonda, che s’infila in verticale, piuttosto che galleggiare a macchia d’olio sulla superficie delle cose. Come quella di Jannacci, uno che il poeta ha amato ed ascoltato dalla prima ora, fra i fondamenti della sua formazione, insieme ai vecchi dischi di letture poetiche che il padre ascoltava da quando lui era bambino. La musica, una metonimia nascosta nelle parole in dialetto, tanto importante che invece non importa, a volte, neppure spezzare le parole, con enjambements che diventano fratture, perché invece resti unito ciò che deve. 

Forse è proprio la musica interna quella che spinge la lingua agli angoli e la allarga, la dilata, la porta ad abbracciare il mondo di fabbriche e colline che è Sassuolo. Musica che può diventare litania di lingua, scherzi sonori di quando si era bambini, e proprio per questo, improvvisamente, serissimi.

Bene l’aveva intuita, la gravitas di questa materia aerea, Giovanni Giudici, che l’ha molto amata, tanto da parlare, per le ottave di Rentocchini, di peso metafisico. Un peso presente anche nei ritratti, come quello che il poeta fa di sé, quasi a metà del viaggio: “Sei un foglio di compensato che sorregge il cielo/ piantato lì di taglio in faccia alla pianura,/ l’esca di una parola in bocca al cielo” (#119); oppure, ancora una volta, le note di una musica struggente: “batto con le dita l’attacco di un blues che ferisce/ e faccio l’amore col tempo, godendo in pianto,/ perché uomo e tempo non si appartengono che all’istante”. (#235).

E’ come avere in mano una piccola felicità, per cui le cose di tutti i giorni, le cose  impoetiche, come la ruggine, la canna di gomma per l’acqua, il nailon, il calcio sono dentro, hanno diritto di cittadinanza, anzi, molto di più: c’è un grande mistero, tra una parola e l’altra, che dà nobiltà, ai cani, ai refoli di vento per la strada, alle figure rade, alla plastica, le ceramiche, il cemento, quasi fossero l’accesso a una miniera nascosta. “E’ come se l’amore di quello che c’è/ avesse trovato qui l’ultimo asilo, / niente di perduto visto che niente passa: i muri scrostati, l’edera, noi sulla terrazza”. (#74).

In questa simpatia non superficiale per tutto il visibile parlare, tra la luce e l’ombra, affondano radici le domande: sulla lingua (per ammissione dello stesso autore, ci sono oltre cinquanta ottave su questo tema), sul tempo, sull’essere in un luogo, sulla memoria, sull’amore di una donna. “La piuma smisurata del creato/ non è memoria o tempo ma soglia in sé”. (#256). Così inizia l’ultima ottava del libro, come a invitarci, varcata la soglia della pagina, a fare spazio alla meraviglia, ferita eppure lucente, dell’esistenza.


Emilio Rentocchini, “Lingua madre”, Incontri editrice, 2016.