William Shakespeare, a quattrocento anni dalla sua morte. Rendere omaggio al genio — in qualunque ambito esso si manifesti — significa prima di tutto, in una cultura artistica matura, attribuirgli il più grande degli omaggi: quello della critica. Ma non necessariamente quello della critica come lavorìo accademico — che, anche se innegabilmente utile, può avere un effetto alquanto agiografico (si potrebbe dire in effetti che, nella nostra epoca di agnosticismo generalizzato, la descrizione venerante delle bellezze nell’opera di un genio artistico sia divenuta l’equivalente laico delle antiche vite dei santi).
L'”omaggio” di cui parlo è quello che rima con “coraggio”: il coraggio di dichiarare (e argomentare) una combinazione di assenso e dissenso, un’alternanza di momenti di adesione appassionata con momenti di rifiuto.
Pare, per esempio, che il critico più maestoso nella storia letteraria inglese, Samuel Johnson, fosse sconvolto da alcuni aspetti della tragedia shakespeariana del Re Lear. E al contrario Simone Weil, la grande pensatrice e mistica francese del Novecento, dichiara senza sfumature che tutto il teatro shakespeariano è di second’ordine, eccezion fatta per il Re Lear. Che queste siano opinioni di interesse ormai storico (e che il sottoscritto sia nettamente in disaccordo con entrambe) non ha particolare importanza. Ciò che è significativo è il gesto in sé, come manifestazione di coraggio critico: queste e simili reazioni restano degne dell’attributo di “critiche” (e non dell’etichetta un po’ spregiativa di “impressionistiche”) perché, al di là di ogni storicismo, esse hanno un valore per così dire ontologico: possono a loro modo rivelarci qualcosa, sulla natura della letteratura e in particolare della poesia.
“Una delle qualità che definiscono l’arte — scrive un critico saggista (Richard Brody nel New Yorker) — è la sua implacabilità: la sua rappresentazione di emozioni pericolose e violente, la sua ardente inclinazione per — e perfino la sua incarnazione di — il negativo, il distruttivo, il ripugnante. L’arte è un luogo di altissimo pericolo; mette a rischio l’anima dell’artista non meno che l’anima del lettore o ascoltatore o spettatore”. Rendere omaggio a Shakespeare, dunque, vuol dire anche riconoscere la pericolosità della sua arte. Ma non in un antiquato senso repressivo per cui i versi di Shakespeare sarebbero pericolosi per la nostra sanità morale, cioè moralistica; bensì nel senso in cui i suoi versi, come tutta la grande poesia, ci pongono faccia a faccia con noi stessi, ci spingono a scavare dentro di noi, in quella zona profonda dove svanisce il moralismo e affiora l’etica.
In che misura tutto ciò — questo piacere e terrore della poesia shakespeariana (se posso variare la formula aristotelica della pietà e terrore) — è percepibile nello Shakespeare tradotto in italiano? La storia della traduzioni italiane di Shakespeare è lunga e illustre, e il lettore italiano d’oggi dispone di riferimenti più che adeguati.
Ma non riesco a dimenticare la franchezza di un mio collega universitario di Bologna, decenni or sono, il quale mi diceva che lui riusciva ad apprezzare il teatro shakespeariano essenzialmente nella sua azione e movimento; mentre la poesia verbale di Shakespeare, resa in italiano, gli restava alquanto distante. E continuo a pensare che il traduttore italiano ideale dei drammi shakespeariani sarebbe un impossibile incrocio di Torquato Tasso, Pietro Aretino e Giovanni Testori.
E’ già stato osservato peraltro (rivendicando l’intuizione di quel mio collega) che l’indebolimento di poesia che ha luogo in ogni traduzione di Shakespeare può essere compensato da “un recupero del testo teatrale nel suo aspetto drammaticamente primordiale” (Rebecca Mead, ancora nel New Yorker).
Ovvero: c’è una lingua del teatro che necessariamente si identifica con singoli contesti nazionali; e poi c’è il linguaggio universale della rappresentazione teatrale. Del resto, come Dante ha incoraggiato generazioni di lettori angloamericani a studiare l’italiano, così Shakespeare potrebbe ben essere una grande occasione per cominciare a studiare l’inglese, accanto ai pur legittimi desideri di, per esempio, allargare il proprio business. E chissà che questo anniversario non serva da stimolo in tale senso. Ma, come dare un’idea dell’inglese di William Shakespeare? Una specifica esperienza può forse servire a questo scopo.
Un paio di mesi fa, a New York, ho avuto la ventura di ascoltare, nell’arco di una settimana, due diversi drammi in due diversi generi — il primo una tragedia, il secondo una commedia — dello stesso drammaturgo elisabettiano, Thomas Middleton: uno di quegli autori che gli accademici spesso schedano, in maniera un po’ irritante, come “minori”, ma senza i quali Shakespeare sarebbe inconcepibile (e che con Shakespeare è probabile abbia occasionalmente collaborato). Come sempre, mi aveva colpito la raffinatezza linguistica del pubblico anglofono: voglio dire, la capacità degli spettatori di seguire senza cali di concentrazione i testi recitati nella loro versione integrale, senza “aggiornare” una sola parola; assorbendo tutti gli arcaismi, i barocchi giochi di parole, le giravolte vertiginose nel dialogo, il martellamento dei colpi di scena. In quelle serate, rincasando verso la mezzanotte nell’ambiente tutt’altro che rinascimentale della ferrovia metropolitana di Manhattan, avevo sentito con particolare forza la potenza e intensità della voce poetica di Shakespeare. La quale si faceva sentire, per così dire, a fortiori: tralucendo, cioè, nella voce di un altro drammaturgo (Middleton, appunto) — e inoltre attraverso la pronunzia statunitense, così diversa dall’asciuttezza tagliente della dizione britannica.
Sembrava insomma che l’eco del suono profondo (mentale più che fisico) dell’inglese, in tutta la sua forza ed eleganza, si percepisse al di là delle conversazioni espressivamente povere di noi viaggiatori metropolitani. E lo strascico, per così dire, di quello scintillìo elisabettiano rivelava quanto antica fosse la genealogia perfino di quelle scritte pubblicitarie abbastanza banali che si leggono nei riquadri lungo le pareti di tutte le carrozze della metropolitana. Cioè: il teatro shakespeariano mostra tra l’altro come l’energia inesauribile dell’inglese nei giochi di parole abbia la sua origine nella sua grande letteratura cinque-secentesca.
In fondo l’inglese (o angloamericano che dir si voglia) ha pagato un certo prezzo per l’invadenza imperiale con cui ha colonizzato il modo in cui il mondo si esprime; a cominciare dall’Europa, dove esso ha battuto, come mezzo principale di comunicazione, le sue grandi lingue di cultura (l’italiano, il francese, il tedesco, lo spagnolo; perfino il russo). Cioè: l’inglese ha scontato questo suo trionfo banalizzando troppo spesso se stesso come lingua, divenendo uno strumento impersonale, un gergo da aeroporto. E’ per questo che l’inglese ha oggi più che mai bisogno di Shakespeare e di tutto il linguaggio che egli rappresenta: non solo per riconoscere il discorso che corre sotto tutta la poesia angloamericana che viene dopo, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, fino a oggi; ma anche, diciamolo pure, per non dimenticare la sua anima.
Al di là, comunque, dell’inglese, dell’italiano ecc., la posta in gioco è il destino universale della poesia; la cui forza è prima di tutto il suo rapporto con la sensorialità. La nostra società — così spesso criticata per l’eccesso e la banalizzazione dei suoi richiami sensoriali, fino alla sensualità — è in realtà una civiltà dell’astrazione, perché depersonalizza e meccanicizza i rapporti umani, mescolando un individualismo superficiale a un altrettanto superficiale collettivismo. A forza di reprimersi senza esprimersi, ogni persona umana rischia di soffocare. La poesia è uno degli elementi fondamentali nella vita che possano soddisfare, nella singola persona, la sete di esprimere il proprio rapporto con la pelle del mondo; e attraverso ciò di dar voce alla sua speranza di salvezza. La poesia teatrale di Shakespeare è una delle realizzazioni fondamentali della poesia come servizio umanistico (dunque, umano) all’altro: il corpo di una persona si apre e piega a servire altre persone (gli spettatori) che stanno nell’ombra — ma che sono presenti, sono vicini.
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(Estratto dalla comunicazione presentata il 19 marzo 2016, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, all’Accademia Mondiale della Poesia, nella Sala Maffeiana del Teatro Filarmonico di Verona)