La liturgia ambrosiana propone un prefazio capace di cogliere in modo suggestivo la condizione umana, sempre tesa a essere felice e spesso costretta entro l’angustia dei suoi limiti.

E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre, qui e in ogni luogo, a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Accordandoci i beni che passano, tu ci sospingi al possesso della felicità che permane e, mentre concedi le consolazioni della vita presente, già prometti le gioie future perché ci sia dato fin d’ora di pregustare un’esistenza perenne, e la bellezza delle cose transitorie non ci imprigioni. Da te ci viene ogni soffio di vita; che se la nostra natura è ferita dalla colpa, tu la rinnovi e la elevi dalla terra alla patria del cielo. Nell’attesa che la nostra speranza si compia, uniti ai cori degli angeli, cantiamo senza fine la tua gloria.



E’ singolare che, mentre si avvicinano i giorni austeri della settimana santa, la Chiesa usi un linguaggio in cui prevalgono i toni della gioia, della consolazione e del bene, non quelli della privazione, della penitenza e della rinuncia. E’ in luce la gratitudine per tutte le cose che riceviamo, e ne potremmo enumerare tante, a partire da quel soffio di vita che in ogni momento ci viene mantenuto e ci permette di gioire di tanti beni transitori sì, ma che in qualche modo fortificano la nostra esistenza. Come non pensare alle tuniche di pelle che il Creatore ha cucito per Adamo ed Eva, pur cacciandoli dall’Eden? La natura ferita dal peccato è stata soccorsa ancor prima della Redenzione dalla mano di Dio, che ci ha collocati in un mondo fatto per noi, che ci ha dato ogni capacità di usarlo per il bene.



Chi fosse ancora turbato dall’immagine di un Dio assente o corrucciato, potrebbe forse correggerla anche solo leggendo questa preghiera che, nel cuore della Messa, introduce l’animo all’atto impensabile di Gesù, che offre la sua vita per salvarci; e potrebbe così anche riandare col pensiero a tutti i beni di cui la sua persona è ricolma, beni umani, transitori, che però vengono rinnovati per accompagnarlo alla soglia della gioia che non finisce più. La cose sono belle, ma senza il richiamo al loro autore e alla sua attesa di donarcene ancora di più nella vita eterna, possono imprigionarci, ridurre il desiderio a una misura stretta.



C’e un piccolo brano di Isaia molto preciso a questo proposito; è tratto dal capitolo 44 e descrive il lavoro dell’uomo, a partire dall’uso del legno: “Tutto ciò diventa per l’uomo legna da bruciare; ne prende una parte e si riscalda o anche accende il forno per cuocervi il pane o ne fa persino un idolo e lo adora, ne forma una statua e la venera“. Amaramente il profeta osserva che l’uomo “ha un cuore illuso che lo travia” e non sa liberarsene e riconoscere la vanità dell’idolo. Soddisfatti i bisogni primari, ecco l’ideologia bussare alla porta del pensiero e farsi corpo, con tutte le storture che ben conosciamo.

Ma è proprio un legno quello che ci ha salvati. “Ecco il legno della croce”, canteremo tra pochi giorni. Dolce legno e arca per il mondo naufrago.