Roma, pieno centro, a due passi dal Pantheon: qui si conserva uno dei tanti esiti suggestivi dell’arte di Michelangelo. È un’opera forse meno nota delle struggenti Pietà, del David o del grandioso Mosè. Ma il messaggio che ci rilancia non è meno vivo e impressionante. Si tratta del Cristo risorto, realizzato entro i primi mesi del 1520 e collocato, alla fine del 1521, nella chiesa che tuttora lo custodisce: la basilica di Santa Maria sopra Minerva.
Quasi un ventennio prima di lanciarsi nell’impresa del Giudizio universale, il genio del Rinascimento cristiano dava nuova prova della sua sapienza inventiva riproponendo in termini sorprendentemente moderni uno dei temi centrali della fede di ogni tempo: la resurrezione di Gesù salvatore in quanto principio di vita nuova che apre l’intero mondo della creazione al suo ultimo compimento. Che tipo di coscienza rivela la potente icona ideata per illustrare questo principio dottrinale? Quale immagine ci trasmette, incidendola nel cuore della nostra memoria?
Cristo è presentato da Michelangelo nel pieno realismo di un vero corpo umano. È interpretato come l’essenza stessa dell’uomo, ricondotta alla sua semplicità più radicale. Per questo Cristo è raffigurato senza i veli di alcuna copertura oscurante, nell’audace franchezza di una nudità integrale. Solo molto più tardi, dopo la svolta rigorista degli anni successivi al concilio di Trento, irrigiditisi drasticamente i canoni della disciplina ecclesiastica, una cautela timorosa nell’affermazione del valore trasfigurante della redenzione cristiana impose il filtro di una censura: come avvenne anche sulla parete della Sistina, si decise di attenuare la forza d’impatto del nudo michelangiolesco ricoprendo con un drappeggio i segni espliciti della connotazione carnale di Chi, per farsi fino in fondo uno di noi, si era rivestito della nostra medesima sembianza.
Ma nell’arte del Buonarroti non c’era la minima ombra di qualunque dualistica venatura di indecenza: all’opposto, in essa esplodeva il massimo della venerazione tributata all’incarnazione del vero Figlio di Dio. Lo si rappresentava come pienamente uomo solo perché in lui le due nature, divina e umana, si erano fuse, diventando un tutt’uno. Proprio per questa via la salvezza portata da Cristo era sentita capace di espandersi fino a rigenerare tutto l’uomo: l’uomo come tale, fatto di anima, di mente, e di corpo. Qui ci troviamo, in altre parole, al vertice del realismo cattolico. Distinguiamo chiaramente la natura e la sovranatura, ma i due mondi sono chiamati a intersecarsi. Si produce il miracolo di un risanamento che spinge il mondo terreno, muovendo dal suo orizzonte più concretamente materiale, incontro a una grazia calata come dono dal cielo di Dio.
Infatti, non è casuale il modo in cui Michelangelo, in uno spazio sacro gestito dai religiosi preposti alla custodia e alla trasmissione della vera fede — l’ordine dei domenicani —, non in qualche buio anfratto laterale, ma proprio nel punto di maggiore evidenza simbolica, ai lati dell’altare maggiore della chiesa, ci invita alla contemplazione di Cristo risorto.
Non solo Cristo è uomo fino in fondo. Ma è l’uomo esaltato nel massimo grado della sua armonia fisica e della sua bellezza formale. È una sorta di eroe della potenza vincitrice della fede cristiana, un atleta della pietà che trasforma e rinnova la realtà della vita nella carne. Il corpo che la fantasia dell’artista gli attribuisce è un corpo perfetto nella sua struttura anatomica, percorso dal vigore di una scattante energia muscolare, suggerita dalla levigatura del marmo modellato con cura amorosa. Questo Cristo risorto è l’uomo restaurato, riportato alla pienezza della sua vocazione originaria, reso, perciò, trasparente sigillo della grandezza del Logos che sta al principio di tutto. Non è l’uomo qualunque, ma il nuovo Adamo. È il principio di un nuovo ordine della creazione. Il seme di una storia che può cambiare di segno, uscendo dalla parabola di decadimento a cui l’aveva condannata la ribellione degli antichi progenitori. In fondo alla strada inaugurata dalla resurrezione di Cristo, svetta il mistero della liberazione dalle catene del male e della morte, l’approdo a una possibilità di definitività eterna.
Ovviamente, per celebrare il dialogo ingaggiato dalla grazia divina con l’umile realtà di una condizione umana assunta come dato e ribaltata nel suo strutturale destino, Michelangelo non aveva bisogno di inventare codici estetici rivoluzionari. In quanto uomo del Rinascimento, adotta il linguaggio tipico dell’arte più alta della sua epoca, piegando l’imitazione del realismo sublime dell’arte pagana dei greci e dei latini al compito di ritradurre, nel presente, i contenuti della nuova visione cristiana del mondo. Gli antichi già avevano insegnato a costruire magistralmente la forma delle immagini. Bastava riappropriarsi dei loro segreti, adattare la loro tecnica superba alla volontà di diffondere, con la massima persuasività possibile, un pensiero alternativo, che aveva smascherato gli errori di un universo ancora ignaro del culmine ormai raggiunto dalla Rivelazione.
Facendo così, Michelangelo non scivola, comunque, nella spirale di un pelagianesimo ingenuo. Resta totalmente immune rispetto all’utopia di guarire i mali dell’uomo svincolandolo dal rapporto con l’onnipotenza di Dio, che lo immette nell’essere e gli ridona quanto la distorsione del desiderio umano aveva distrutto. La ri-creazione a cui si viene spalancati si staglia sempre sullo sfondo di un dramma, oltrepassando ogni sterile ottimismo presuntuoso. Il Cristo-uomo nuovo disegnato dalla mente devota di Michelangelo non si è fabbricato da sé una gloria a buon mercato. Impugna con il braccio destro non una lancia da guerra, ma il simulacro della croce. E anche se sul suo corpo perfetto non si legge il marchio vistoso delle piaghe da cui si è sprigionato il beneficio della redenzione, la torsione delle membra virili del Salvatore portano il braccio sinistro, proiettato in avanti come scudo di difesa, a trattenere saldamente la canna con la spugna imbevuta d’aceto, disgustoso sollievo concesso all’uomo del Golgota nelle ultime ore della sua cocente agonia.
La resurrezione è una forza di bene, una promessa di verità e di bellezza che si incunea nelle vene più nascoste della vita del cosmo. Ma essa rimane il frutto, grondante ancora di sangue, di un supplizio passato attraverso le ferite umilianti che avevano lacerato la carne del Figlio dell’uomo. La sovrabbondanza del suo amore misericordioso, senza freni, conteneva già in sé lo splendore trionfante della luce che vince le tenebre più fosche.