Chi ama non dorme. La massima, nella sua aforistica semplicità, è formulata da Michelangelo Buonarroti in una lettera all’amica Vittoria Colonna del 1538. E da questa battuta emerge uno dei tratti più tipici della sua personalità, attraversata e scossa sempre da grandi passioni, e perciò irrequieta, febbrile, incline al disagio e alla fatica, pronta a lavorare — come scriveva al fratello Buonarroto, nel 1507 — giorno e notte, perché (così pensava) in ciò si esprime la tempra di un uomo. Perché, come si legge in Lc 9,62, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”. Al medesimo fratello, al tempo degli affreschi sulla volta della Cappella Sistina, Michelangelo confessava: non ho neppure il tempo di mangiare, per paura di venire meno alla mia missione. Parrebbe, scorrendo le migliaia di voci della sua corrispondenza, che egli avesse intimamente assimilato la lezione di Mt 26: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo. […] Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia”.
Dormono i superbi e gli ingrati, annotava Michelangelo, forse ricordandosi della delusione provata da Cristo nel trovare addormentati i discepoli ai quali aveva chiesto di vegliare con lui (Mt 26,36-46). Chi ama, al contrario, è sempre sveglio e pronto, e non ha paura di andare per il mondo “scalzo e nudo”, come confidava al fratello, secondo l’immagine già adoperata dal profeta Michea (1,2-9). Chi ama, raccomandava al padre, non sa che farsene degli onori e delle ricchezze; gli bastano il pane e la compagnia di Cristo, e anzi sopporta le tribolazioni con pazienza, come profilassi che educa e avvicina alla giustizia e alla verità. Dormono gli stolti, mentre chi ama sa che “la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza” (Rm 5,4).
E tuttavia un’apparente contraddizione sembra percorrere tutti gli scritti michelangioleschi: da un lato l’elogio del fare, perpetuamente e instancabilmente; dall’altro la stringente consapevolezza dei propri limiti, errori, difetti. Al punto che, finalmente disceso dai ponteggi della Sistina, dopo quattro anni di lavoro, al padre dichiarava: questo affresco non è riuscito come avrei desiderato. Proprio così però, gli aveva insegnato il domenicano Lorenzo Viviani, il cristiano si pone nel mondo: non aspettando la manna dal cielo, ma dando corso ai talenti ricevuti “per tutte le vie giuste e oneste”, senza con ciò dimenticare la nostra fragilità di uomini peccatori. Questo è il conforto che alla coscienza viene dalla grazia della croce: per quanto fallimentari e approssimative, “le nostre opere di qua fatte” misurano la forza della nostra risposta all’amore di Dio e a Cristo morto per noi peccatori (Rm 5,8).
Pochi uomini, in effetti, hanno dato voce, come Michelangelo nelle lettere ai famigliari e agli amici, a una tale fiducia nel perdono divino per le proprie mancanze e le proprie debolezze. “La grazia di Dio — scriveva ancora a Vittoria Colonna — non si può comperare”, e “tenerla a disagio è un peccato grandissimo”. È il frutto del sangue versato dal Figlio sulla croce, che, riconciliandoci col Padre, ci salva; consapevoli di ciò, sentendoci amati sperimentiamo il Paradiso sulla terra. Arrendendosi, il cristiano è accolto e ospitato in un mondo nuovo. Dove, però, non si dorme.
Perché? Per quale ragione, così ossessivamente, Michelangelo sottolinea l’importanza di non restare, ai piedi della croce, con le mani in mano? Se la grazia non si merita, perché fare? Si tratta, evidentemente, del rapporto tra la fede in Cristo risorto e le opere che ne possono o devono conseguire, al centro delle riflessioni teologiche e spirituali del Rinascimento, a cui fa riferimento anche una lettera, poco nota, che fu spedita a Michelangelo, nel 1516, dal domenicano Lorenzo delle Colombe. Il testo dovette risultare, per il destinatario, decisivo, dal momento che la riflessione lì formulata venne riprese in molte sue pagine a venire: “Sai che l’amore non è terminato da luogo o tempo, massime quello di Dio. […] Amiamoci dunque nel Signore, come abbiamo fatto insino adesso, e intenderemo e conosceremo il tutto e la verità. E la vedremo a faccia a faccia, se viviamo bene e cristianamente, attendendo a scolpire in te col mazzuolo delle buone et virtuose opere l’impronta di Cristo crocifisso per noi, la quale si fa in fede e per fede informata di carità santa”.
Vivere cristianamente, cioè nella luce del Risorto, significa scolpire nella nostra vita, per mezzo delle opere, l’impronta di Cristo crocifisso per la nostra salvezza, come è possibile fare solo grazie a una fede che si trasforma in carità. Solo così il sangue versato da Gesù diventa “lavacro di rigenerazione” e linfa di vita nuova, affinché “coloro che credono si sforzino di essere i primi nelle opere buone”, come è bello e utile per tutti gli uomini (Tito 3,5-8).