C’è un passo illuminante di In movimento, l’autobiografia di Oliver Sacks (1933-2015): dopo il trasferimento a New York, durante le sue esplorazioni della campagna intorno alla metropoli, Sacks trova un simpatico albergo: presto, le sue soste nell’hotel si fanno periodiche e “il dottore” diventa una presenza familiare per gli abitanti del borgo. In particolare, Sacks diventa un habitué del vecchio bar: “Svolgevo gran parte del mio lavoro di scrittura in una nicchia adiacente al bar, dove potevo starmene da solo, in disparte, invisibile — e tuttavia riscaldato e stimolato dall’intensa vita del bar” (p. 240). Questa situazione mi sembra un’ottima metafora per definire il lavoro dello scrittore, che, essendo colui che per definizione osserva, descrive, racconta, sta fuori dalle cose, dalle situazioni; ma, allo stesso tempo, per poterne scrivere con cognizione di causa, deve anche esserci dentro, deve cioè saper stare immerso nel flusso della vita.



È strano leggere l’autobiografia di un medico, neurologo e scrittore, che inizi soffermandosi tanto sulla passione per le motociclette. E non basta dire che queste pagine sono la naturale reazione alla sensazione angosciosa di prigionia sperimentata da Sacks bambino, quando, durante la seconda guerra mondiale, venne mandato lontano da Londra, in collegio; perché, in realtà, Sacks, scomparso poco più che ottantenne nel 2015, è sempre stato On the move, “in movimento”, come recita il titolo della sua autobiografia, citazione di un amico poeta. La sua storia personale lo dimostra: figlio di due medici di religione ebraica (la madre fu un’insigne ginecologa e chirurga, una delle prime a esercitare in Inghilterra questa professione), dopo la laurea a Oxford si trasferì in California, e poi a New York. Queste oltre quattrocento pagine sono il racconto di un’irrefrenabile curiositas, che lo portò ad accumulare esperienze disparatissime, anche per sfuggire a un’irrequietudine che lo fece cadere, in gioventù, perfino in comportamenti autodistruttivi, come l’abuso di amfetamine, o la passione compulsiva per l’esercizio fisico e il sollevamento pesi.



In Italia Oliver Sacks divenne famoso con L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, il suo più grande successo negli anni Ottanta, e, ancora di più, con Risvegli, il film tratto a inizio anni Novanta dall’omonimo libro, in cui si narrava l’esperienza di neurologo nel cronicario in cui erano ricoverati alcuni pazienti scampati alla grande epidemia di encefalite letargica, malattia che colpì migliaia e migliaia di persone nel mondo negli anni Trenta, riducendoli come dei vegetali, e cristallizzandoli in uno stato raggelato. Il film, interpretato da Robin Williams nel ruolo di Sacks, rese il medico una celebrità, ma questo non deve falsare la nostra prospettiva: a lungo egli rimase escluso — se non guardato con sospetto — dalle gerarchie accademiche. Nel 1976, per esempio, quando già aveva pubblicato i suoi primi libri, fu contattato da uno studente di medicina che gli chiedeva di poter “osservare i metodi adottati dal suo dipartimento e seguir(e)… qualsiasi eventuale corso”. 



Con ammirevole schiettezza, Sacks gli rispose così: “La mia situazione, grosso modo, è la seguente. Io non ho un Dipartimento. Io non sono in un Dipartimento. Piuttosto, sono un nomade, e sopravvivo — in modo alquanto marginale e precario — lavorando qua e là (…) (pp. 234-235). 

Di solito, pensiamo a Sacks come al neurologo narratore di casi “strani”, di persone colpite dalle sindromi più singolari: il pittore diventato cieco ai colori, la donna che perde la propriocezione (cioè la percezione complessiva del corpo, che consente equilibrio e coordinazione) e l’uomo che scambia la moglie per un cappello da cui prende, appunto, il titolo il suo libro più celebre. Eppure, al di là della bizzarria di questi pazienti, in tutti i casi trattati e raccontati, Sacks per prima cosa ascolta veramente il paziente, e, oltre alla perizia tecnica, gli sa dare la percezione della sua vicinanza morale, del fatto che la malattia neurologica, soprattutto se se rara, rarissima, a volte incurabile, non sempre è di ostacolo per vivere un’esistenza comunque piena, ricca di relazioni, umanamente significativa. 

Forse, questa sensibilità derivava a Sacks dall’esperienza, dolorosa, e mai completamente risolvibile, di un fratello schizofrenico; in ogni caso, essa fa di Oliver Sacks il medico che tutti avremmo voluto incontrare almeno una volta nella vita. Ed è anche uno dei pochi medici-narratori: anche questo, probabilmente, gli viene in parte — per retaggio familiare — da un’inclinazione già molto forte nei suoi genitori; ma il suo talento è tale che Sacks può essere paragonato solo ai grandi medici del XIX secolo. Certo meno tecnicizzati di oggi, essi sapevano però descrivere i loro casi e i loro pazienti, la sintomatologia e la malattia con una precisione, una densità e un’eleganza rare. La capacità di rendere ogni circostanza dell’esistenza un’occasione per raccontare e raccontarsi, è il tratto che maggiormente connota e conquista di In movimento, e di tutti i libri di Sacks, in fondo, perché, lui stesso lo ammette, non c’era attività che gli desse più piacere dello scrivere: “L’atto di scrivere, quando funziona, mi dà un piacere e una gioia diversi da qualsiasi altra cosa. (…) Scrivere mi porta in un altrove (…) dove dimentico pensieri distraesti, preoccupazioni, ansie e persino il trascorrere del tempo” (p. 397). 

Del resto, Sacks si sentiva in prima battuta un narratore, e la passione per raccontare e per ascoltare racconti, afferma congedandosi dai suoi lettori per l’ultima volta, è una grossa parte della nostra identità di esseri umani: “Nel bene e nel male, io sono un narratore di storie. Ho il sospetto che un’inclinazione per le storie, per la narrazione, sia una disposizione umana universale, che va di pari passo con le nostre facoltà di linguaggio, con la coscienza di sé e con la memoria autobiografica”.


Oliver Sacks, “In movimento”, Adelphi, Milano 2015.