Il 19 luglio 1943 il bombardamento alleato sventrò Roma. Tra i superstiti, sotto le macerie, c’era un bambino che non avrebbe dimenticato quell’orrore trasformandolo nel cuore della propria poesia, verticalmente orientata a sondare le origini del male.
Quel bambino era Elio Fiore (1935-2002), poeta grande e dimenticato, dalla luce francescana, dai versi cristallini capaci di vedere “chiaro nella notte triste”, come quelli dell’amico Ungaretti, che si adoperò per portarlo fuori dall’anonimato introducendo la sua prima raccolta con bellissime parole: «Se poesia è bruciare di passione per la poesia, se è vocazione ansiosa, tormentosa a svelare nella parola l’inesprimibile, nessuno è più poeta di Fiore».
Era il 15 maggio 1965 e Ungaretti, presso la galleria d’arte “La Nuova Pesa”, «battezzava» così i Dialoghi per non morire di Fiore (Edizioni Apollinaire, poi ristampato da Scheiwiller nel 1989). In quella raccolta tornava il demone della guerra che aveva marchiato il bambino. Sopravvissuto alle bombe, grazie al corpo della madre che non aveva mai smesso di pregare per lui, Fiore fu poi sfollato nel ghetto, dove vide, all’alba del 16 ottobre ’43, il rastrellamento degli ebrei:
«Battevano i soldati alle porte coi fucili / nel ghetto di Trastevere, gridavano ai Giudei. / E, sulla piazza bianca, acceso era l’autunno. // Marchiavano le porte: segni bianchi di congiure, / violenze, contro vecchi artigiani dalla barba bianca, / pazienti nell’impagliare sedie. Gridavano nomi e nomi / bollati su elenchi di terrore. avvinto tra i vetri strisciati / mi stringevo al padre mio, forte a quei turpi occhi, infernali…» (Dialogo decimo).
E in una prosa della maturità avrebbe ricordato quella mattina:
«Non posso tacere il mio ricordo più lontano: a otto anni vidi, in un sabato tragico i nazisti prendere quasi tremila ebrei per portarli nei campi della morte. Eravamo sfollati da mia nonna in piazza in Piscinula, avendo avuto la casa distrutta nel bombardamento… per questo, nel ghetto, a ogni Natale, nella notte del 24, mi mettevo a leggere il diario di Anna Frank e le pagine di Primo Levi ascoltando canti ebraici. Come avrei potuto fare altrimenti?» (Natale nel ghetto e altri ricordi).
Fiore fu un Dino Campana del secondo Novecento. Ebbe visioni (diceva di aver incontrato Leopardi a Napoli e di aver avuto rivelazioni mistiche nel Duomo di Milano) e molte delusioni. Cercava l’amicizia dei poeti che sentiva fraterni come Montale, Sbarbaro, Rafael Alberti o Sibilla Aleramo, ma rimase escluso dai grandi circuiti della letteratura. Svolse sempre lavori precari fino a essere «salvato» da un impiego part time al Pontificio Istituto Biblico di Roma e dalla legge Bacchelli, da quei 30 milioni di lire annue che arrivarono soprattutto per l’interessamento di Mario Luzi.
Dopo i Dialoghi Fiore attraversò un estenuante silenzio, interrotto dalla pubblicazione delle «poesie di Natale» volute per Studi cattolici da Cesare Cavalleri che fu anche il suo primo recensore e che nel 1987 salutò così i Notturni: «Fiore non è mai poeta lirico, è carne e sangue di uomo vivo che dal flusso della storia risillaba l’eterno. Ecco, il silenzio. Di notturno in queste tredici sequenze vi è soprattutto il silenzio, il silenzio cosmico che non è intaccato dal respiro del mare. La poesia, del resto, si nutre di silenzio, e il sogno di Elio Fiore, vivo, è sempre a occhi aperti».
Fiore ebbe pochi momenti di gloria. Il più intenso, forse, con l’uscita di In purissimo azzurro per Garzanti (1986). Questa volta fu Mario Luzi a introdurre i suoi versi: «Sono annunci, lamentazioni, terribili accuse, luminose ascese e discese della “profezia” che traversano il nostro tempo così impetuosamente e così implacabilmente che io non conosco altro libro di poesia nostra dove la tragedia dell’epoca sia altrettanto presente nei suoi grandi traumi apocalittici e nelle sue quotidiane circostanze, sotto la trafittura della luce e del grido».
Fiore fu amico di Montale. Quando il premio Nobel morì, la sua governante regalò a Fiore un cappotto («un aquascutum di Londra, con fodera scozzese»). Per lui fu un omaggio indimenticabile. Si vantava di avere la stoffa del poeta e titolò una delle sue raccolte migliori proprio Il cappotto di Montale (Scheiwiller, 1996). È un poemetto limpido sul senso della poesia, fittissimo di riferimenti biografici. È un testamento e una miniera di consigli per giovani scrittori. La prima lirica di questa raccolta è il miglior ingresso al laboratorio di un autore da riscoprire e di cui le Edizioni Ares hanno appena stampato l’opera omnia (Elio Fiore, L’opera poetica, a cura di Silvia Cavalli, Prefazione di Alessandro Zaccuri):
Ascolta, giovane poeta, anch’io lascio
poco da ardere, ma ho visto l’azzurra luce
di Leopardi. Matto per questo mi hanno preso,
ma visionario significa essere fisso e attento
alla chiamata del mistero dell’Universo,
alla parola che tempera l’alto disegno
svelato del Creato. Ed io sono qui, per questo,
povero e solo, ma nel mio cuore il Verbo dell’Universo,
il canto, non calcolato come di certi nuovi credenti
del mio tempo. Ungaretti, Montale, Sbarbaro,
Bertolucci, Sibilla e Luzi, li ho cercati e mi hanno
riconosciuto. Vivo e attento ad ogni loro verso,
infiammato e fedele alle loro vite, riconosciuto
nel profondo del mio essere, scavo alla radice
della poesia, mente da mente. che dirti,
poeta che muovi i primi passi? Vivi intensamente,
stai lontano dai letterati infidi, ama i versi
dei poeti che hanno pagato con il sangue
la salita suprema, dopo la selva oscura e il principio
dell’anima smarrita. Sii fedele alla musica segreta,
alla chiamata del creato, ai segni invisibili,
e drizza l’occhio alla visione improvvisa,
alla chiamata. Nella notte dell’anima, sentirai
l’umiltà d’Iddio, la parola semplice, ispirata.
Altro non posso dirti, io che sono tra i vivi
e prego i morti, solo, ma resuscitato.