Le opere d’arte, in quanto opera, vivono di una vita in qualche modo autonoma rispetto ai loro autori, tant’è che, mutando le domande che vengono loro poste, danno luogo a interpretazioni a tratti finanche imprevedibili. Vale per tutti e per tutte le epoche e, dunque, a fortiori, anche per un autore tanto fecondo e in continua evoluzione quale è stato Ernst Jünger. 



C’è una sorta di filo di Arianna che percorre le sue numerose opere, quelle di «una vita lunga un secolo», come recita il titolo della sua bella biografia, a cura di Heimo Schwilk. Non è solo che Jünger è morto, nel 1998, alla non giovane età di 102 anni (era ormai prossimo ai 103!) perfettamente consapevole e lucido, lasciandosi dietro le spalle una serie impressionante di capolavori letterari e filosofici. E nemmeno che il «secolo» di Jünger, il XX, è quello che ha visto tutti i disastri di cui noi paghiamo le conseguenze. È che quello di Jünger è un percorso che attraversa tutto il dramma dell’uomo contemporaneo e lancia un messaggio poderoso: il nichilismo può essere superato solo se attraversato e non semplicemente ignorato o condannato. 



Si badi: attraversato, non necessariamente condiviso. Jünger, peraltro, dal nichilismo era partito, forse da un nichilismo estetico ed eroico, non vuoto e inconsistente, ma pur sempre nichilismo, almeno nella sua tensione profonda: quello che lo portava a meditare Nietzsche, mentre intorno a lui fischiavano i proiettili nelle trincee della Somme. Ferito quattordici volte, sopravvissuto alla Grande Guerra e pluridecorato, dalla croce di ferro alla Pour Le Mérite, l’ultima  assegnata dall’Impero tedesco prima della sua fine, Ernst Jünger divenne rapidamente un mito, di fronte a cui si fermò persino la furia totalizzante del Terzo Reich, che non riuscì mai a strumentalizzarlo o piegarlo. Jünger rappresentava, nelle sue cicatrici e nelle sue opere, la vecchia Germania dei grandi principi e valori, quella della terra e del sangue, orgogliosamente aristocratica nella comprensione di se medesima, ma sostanzialmente incompatibile con un modello ideologico totalizzante.



Il punto è che, anche quando si abbeverava ai miti nietzschiani, Jünger, in realtà, non era realmente e radicalmente nichilista, essendo piuttosto un uomo in ricerca, che si guardava intorno senza che i fondamenti, ereditati dalla tradizione, reggessero più. L’atteggiamento nichilista, per cui la norma dovrebbe limitarsi a codificare un desiderio lasciato a se stesso, gli era lontanissimo, quanto meno perché era la negazione della dimensione “eroica”. Per lui il desiderio veniva prima delle sue codificazioni. Alla fine delle Tempeste di acciaio — il fortunato romanzo in cui in uno stile freddo e impersonale viene presentata la guerra di trincea — Jünger ricorda l’alfiere morto per salvarlo, gravemente ferito nella terra di nessuno, dopo un assalto folle e disperato contro il Nemico che ormai avanzava dovunque. È Il cuore avventuroso, per citare il titolo di un altro suo celebre romanzo, a dettare all’alfiere quell’atto così coraggioso, non una serie di astratti principi filosofici. 

Ed è questo medesimo cuore a guidare, passo dopo passo, la resistenza umana a impedire che il sistema, con le sue rigidità ideologiche, ingabbi e paralizzi quel che resta di un intimo e nascosto impeto di libertà, come nel romanzo Sulle scogliere di marmo, risalente agli anni del potere nazionalsocialista, dove Jünger prefigura un mondo cristallizzato dal Potere che tutto decide e definisce. Per lui, anche da giovane lettore di Nietzsche, la vita e il mondo non erano e non sono privi di senso, né la morale non esiste o non esistono valori. I valori sono talmente “dentro” da sfuggire a qualunque classificazione. Anzi: il coraggio, l’umanità e i valori sono un’unica e medesima realtà, che si concretizza dapprima nella figura dell’eroe e, poi, si trasfigura in quella dell’operaio, Der Arbeiter

Perché, allora, il nichilismo? Perché esso è la tentazione estrema della civiltà. Non è solo il comunismo, per riprendere un detto di Armin Mohler — celebre, e ingrato discepolo di Jünger —, a essere un sistema politico per popoli sottosviluppati. Lo sono tutte le ideologie. Il nichilismo, no. Il nichilismo è il lusso delle società ipersviluppate e, più precisamente, delle loro élites, lasciando alla massa il proprio essere null’altro che materiale informe di manovra. Si trova un nichilismo in nuce in ogni società avviata verso il declino, non solo nella nostra epoca. Ma, in quest’ultima, il nichilismo e il declino coincidono tragicamente. A Jünger, peraltro, il declino della civiltà interessava infinitamente meno del destino del singolo uomo. È un tratto, in qualche modo biblico, che accompagna tutta la sua produzione letteraria. E questo uomo — eroe, operaio, anarca, ribelle — è ultimamente solo davanti a questo suo destino.

Rileggere certe pagine di Jünger, anche al di fuori un certo filologismo esasperato, quasi scolastico, può essere utile a comprendere come resistere in questa «via che non dà garanzie di sicurezza né dall’interno né dall’esterno», quale è la nostra, di cui discute con Martin Heidegger nel suo Oltre la linea (edizione italiana: Adelphi, Milano 1989). La linea è quella di un nichilismo divenuto ormai condizione normale. Abbiamo da tempo attraversato questa linea e la libertà umana, come un atomo impazzito, vaga in uno spazio che pretende vuoto. «I tiranni odierni non hanno nessuna paura di coloro che parlano (…). È molto più temibile il silenzio – il silenzio di milioni e anche il silenzio dei morti, che diventa di giorno in giorno più profondo e che il rullo dei tamburi non può coprire fino a evocare, un giorno, il Giudizio. Nella misura in cui il nichilismo diventa normale, i simboli del vuoto diventano più temibili di quelli del potere. Ma la libertà non abita nel vuoto, essa dimora piuttosto nel disordinato e nell’indifferenziato, in quei territori che sono, sì, organizzabili, ma che non appartengono all’organizzazione. Vogliamo chiamarli la “terra selvaggia” (die Wildniss); la terra selvaggia è lo spazio dal quale l’uomo può sperare non solo di condurre la lotta, ma anche di vincere». 

In un’opera successiva, Il Trattato del ribelle, questo spazio selvaggio sarebbe divenuto il Waldgang, il fuggire nel bosco, l’atto con cui il ribelle si separa dai condizionamenti del potere, in un “bosco” che è esplicitamente identificato con il quotidiano, nella sua grigia e lacerante normalità.

È impressionante come Jünger, che allora (1980) era ancora lontano dall’adesione esplicita a una fede religiosa ed era passato dalla figura del “lavoratore” a quella dell'”anarca” o del “ribelle” conservatore, colga quel che stava e sta succedendo «al di qua» della linea, dove trionfa l’ambito conflittuale del nichilismo: «Bisogna comunque ringraziare solo la chiesa, oltre ad alcuni soldati, se non si è giunti, accompagnati dal tripudio delle masse, all’aperto cannibalismo e alla fanatica zoolatria». E ancora: «L’ulteriore regresso delle chiese avrebbe come conseguenza o il totale abbandono delle masse in balia del collettivo tecnico e del suo sfruttamento, o di spingerle tra le braccia di quei settari e ciarlatani che ogni fanno cagnara a ogni incrocio. A questo portano un secolo di progresso e due secoli di Illuminismo». E, ancor più amaramente: «Bisogna constatare che la teologia non si trova affatto in uno stadio che le permetta di competere con il nichilismo. Essa si scontra piuttosto con le retroguardie dell’Illuminismo», erge, cioè, il dialogo come proprio scopo, ma dialoga a ritroso, irrimediabilmente in ritardo «e impigliata essa stessa nelle pastoie del discorso nichilistico».

«É cominciato il tempo degli Stati mostro (…). L’epoca delle ideologie, quali erano ancora possibili dopo il 1918, è tramontata (…). La mobilitazione totale è giunta a uno stadio la cui minaccia oltrepassa quelle del passato». È così che Jünger scopre che l’anelito della libertà, l’eros «che vive anche dell’amicizia», il confronto generatore di verità con la morte e con il dolore (uno dei figli di Jünger fu mandato a morte certa dai nazisti nel 1945, nemmeno ventenne; l’altro, medico affermato, morì suicida per depressione) divengono dei «giardini dove il Leviatano non ha accesso». E dove può anche accadere il miracolo.

E così, arrivato alla sua ultima trincea, il fante d’assalto Ernst Jünger è riuscito un’ultima volta a sorprendere tutti con la sua conversione, non solo sub limine mortis, alla fede cattolica, che, ancor ora, imbarazza profondamente chi di Jünger vorrebbe fare un eroe neopagano, solitario e sprezzante. Certo, Jünger è stato anche questo, e per la parte più lunga della sua vita. Dunque è lecito considerare queste tappe per quel che sono state. Ma perché non cogliere questo suo grido estremo, il più coraggioso e sconcertante, di quest’altra sua opera «lunga un secolo», che è la sua stessa vita?