Chi è oggi, dopo 400 anni dalla morte, Willy in the World, rubando il titolo alla rigorosa ed affascinante opera di Stephen Greenblatt, classico del New Historicism? Quello che ci raccontano le parate celebrative di Stratford-upon-Avon, quello del tour mondiale del Globe, o quello delle proiezioni in successione lungo il Thames previste per il weekend dove tutto ebbe inizio e fine, il 23 e 24 aprile? Un fenomeno da cassetta, un’occasione per rimpinguare le casse di denaro, un business? Certamente, e come già sostenuto in queste pagine, ciò è parte integrante del suo patrimonio genetico di uomo di teatro e business. 



Ma se Shakespeare ebbe inizio nel wooden O, il piccolo teatro di legno di cui chiede venia nel prologo di Henry V, Willy oggi è ovunque, e tutti lo adattano, lo “traducono”, lo “ridicono”, lo “riscrivono”. Ma se tradurre è sempre tradire, e il patrimonio genetico è dato, si può legittimamente “ridire” il teatro di Shakespeare? Si può riscriverlo in prosa, come stanno facendo alcuni autori contemporanei in occasione dei 400 anni di Billy Shakes?



Shylock Is My Name di Howard Jacobson, autore umoristico di storie ebrei inglesi, ripresenta in ben altra chiave l’ebreo più cupo della storia, lo Shylock vendicativo di The Merchant of Venice, e l’elenco di altri simili operazioni sarebbe lunghetto, con una Tracy Chevalier, l’autrice di The Girl with the Pearl Earring e Burning Bright (leggasi Vermeer e Blake) alla prese con Othello, o Margaret Atwoodche in Hag-Seed che si cimenterebbe di nuovo con The Tempest? Operazioni di puro mercato, e quindi svilimento del Bardo, indebite e di bassa lega, di cui non si dovrebbe dar notizia? 



Cinema, pittura, musica, balletto, tutte le fine arts hanno “scritto” e “scrivono” continuamente il Bard, continuamente uccidendolo e resuscitandolo, e il Lazzaro che esce dalla tomba non è più, per certo, l’uomo che vi è entrato. Il cinema ricrea il mondo dell’azione del teatro allargandone gli spazi, anzi, creandone di nuovi — si sono visti King Lear nel Giappone dei samurai, e Hamlet nella Polonia ancora comunista —, ma è spesso impacciato con i monologhi di Shakespeare, al meglio trasformati in flussi di coscienza o più semplicemente omessi. Come Edgar, che nel suo monologo nel King Lear si rivolge alla Natura proclamandola la sua Dea e che rischia di vedersi accorciata la parte; e seduto in poltrona lo spettatore non udrà mai il suo grido di figlio bastardo/illegittimo, “Why brand they us/With base? with baseness? bastardy? base, base?” (I ii 1), lui bastard e quindi base, volgare, basso e spregevole, etichettato, anzi, marchiato a fuoco dalla sua origine. 

Va da sé che nessuno dei quadri che Shakespeare ha ispirato può calcare una scena, anche se la Lady Macbeth di Sargent raffigura l’attrice Ellen Terry in una performance di fine ottocento; tuttavia personalmente, e non credo di essere la sola, ho amato il fascino fiabesco di Botton con la testa d’asino circondato dalle fate o abbracciato da Titania più nei quadri di Fussli che in talune performances, e nessuna performance teatrale può mostrare l’intreccio di follia ed innocenza di Ophelia con le braccia aperte e sollevate al cielo mentre fluttua nel fiume nel quadro di Millais.

Shakespeare era certamente a suo agio con music and dance, elementi essenziali e non decorativi del suo teatro; The Willow Song cantata da Ophelia poco prima che l’amato sposo la uccida per gelosia ne rivela tutto il dolore tragico ed innocente, la canzone di Much Ado about Nothing Sing no more dice quel che tutti sanno, che essere costanti non è dono maschile, anche nella versione dei Mumford and Sons, e la danza alla fine di una commedia celebra i matrimoni, la riconciliazione, la pace e la vita. Ma la musica ed il balletto sono andati oltre Shakespeare, ed un’occhiata a http://www.lieder.net lo conferma, con autori classici e moderni che hanno creato arie, ouvertures ed adattamenti di ogni genere ispirati a Shakespeare. Ma ne hanno cambiato il linguaggio, inevitabilmente, arrivando anche, senza alcun ritegno, a levargli quel che appare l’essenziale di Shakespeare, la parola. 

Oppure riescono a lasciargliela, come nell’intreccio fra balletto, narrazione e video proiezioni di The Winter’s taledi Christopher Wheeldon all’Opera House di Londra, dal 12 aprile al 10 giugno; un’altra eccellente idea per un ponte primaverile alla scoperta di una strana verità esperienziale, ben chiara a mio parere al genio elisabettiano, che The highest cannot stand without the lowest (L’alto non può reggersi senza il basso), C.S. Lewis. 

(3 – continua)