Cent’anni fa nasceva a Bologna da una ricca famiglia ferrarese Giorgio Bassani, lo scrittore celebre soprattutto per il suo romanzo Il giardino dei Finzi-Contini, da cui De Sica avrebbe tratto il film omonimo, vincitore del premio Oscar.
Nel panorama narrativo italiano, dominato da una scrittura piuttosto asciutta sulla scia degli autori americani, introdotti in Italia per opera di Pavese, di Vittorini, di Calvino, lo scrittore si distingue per un periodare ampio, spesso ipotattico, riprendendo la maniera manzoniana che tanti epigoni aveva avuto tra Ottocento e Novecento. Del resto i gusti letterari di Bassani si orientano verso quel periodare colto, se a lui si deve la pubblicazione in Italia de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, rifiutato da Vittorini, e de Il dottor Zivago di Pasternak.
Il paragone tra il cattolico Manzoni e l’ebreo Bassani finisce qui. I loro due romanzi infatti non hanno punti in comune, se non forse, a volerli considerare racconti di formazione, di Renzo il primo, dell’anonimo protagonista il secondo. Non sempre però, ed è evidente in questo caso, le categorie che fissano la realtà mobile della scrittura in uno schema rigido rendono giustizia all’intento dell’autore e ai più ampi temi del testo.
Bassani rievoca, e non solo in questo capolavoro, la vita di Ferrara, la città in cui vive infanzia e adolescenza, e in particolare l’ambiente ebraico che vi si è insediato, molto numeroso e in buona misura ricco. La famiglia dei Finzi-Contini è l’emblema di una borghesia colta, molto benestante, ospitale nel chiuso recinto della villa in cui abita, attorniata da un grande e curatissimo giardino, che comprende un campo da tennis (Bassani era molto appassionato a questo sport). Ai bordi del campo si svolge gran parte della vicenda, tra partite, generose merende, confidenze, discussioni. Qui si delinea l’amicizia tra Micol, l’intelligente figlia dei padroni di casa e il protagonista, ospite della villa e frequentatore della ricca biblioteca messagli a disposizione dal padre di lei, il professor Ermanno, per scrivere la tesi. Quel legame si muta col tempo in amore, ma Micol vi si sottrae. Ai ripetuti tentativi da parte del protagonista di palesarle il suo sentimento, la giovane risponde con espliciti dinieghi, fino a chiedergli di non varcare più la soglia del giardino. Sono troppo simili, due gocce d’acqua, gli dice; l’attrattiva per il diverso trova invece un oggetto nella personalità di Malnate, compagno di studi di suo fratello Alberto, ingegnere milanese a Ferrara per lavoro e convinto comunista.
Nel frattempo le leggi razziali si inaspriscono e la famiglia dei Finzi-Contini viene travolta: tutti vengono arrestati e deportati in Germania, tranne Alberto, che muore di cancro. Nella monumentale tomba di famiglia è sepolto solo il figlio; gli altri muoiono in campo di concentramento. Fino alla fine i componenti della famiglia hanno continuato a sperare di essere risparmiati, a respingere il pensiero dell’orrore che si consumava al di là del cancello della loro villa. Ma il male è entrato e li ha ghermiti.
Il romanzo è molto meno una denuncia dei crimini nazisti e fascisti che una meditata riflessione sul male che si insinua nelle relazioni più limpide, sulla lama di menzogna che avvelena il fiore della giovinezza, sull’illusione che una vita appartata protegga dalla violenza della storia. Come tale appartiene di diritto alla grande narrativa novecentesca.