Ottantanove anni, di cui settanta sui palcoscenici. Comincia con i numeri (e credo che questi due siano sufficienti) l’elenco delle voci che fanno la grandezza di Adriana Innocenti, la grandissima attrice — celebratissima prima e poi dimenticata, com’è nella crudele natura delle cose — che ci ha lasciato l’altro ieri. 



Si potrebbe continuare con i nomi dei registi che l’hanno diretta, degli attori con cui ha lavorato e, soprattutto, con la teoria dei generi che il suo corpo piccolo e potente, i suoi occhi deboli ma infuocati hanno attraversato. 

Tragedia greca, classici europei, commedia brillante e meno brillante, operetta, da Sofocle ad Agatha Christie, da Brecht a “Arsenico e vecchi merletti”, da Shakespeare a Pirandello, da diversi autori contemporanei alla “Venexiana”, si può dire che Adriana abbia fatto coincidere il Teatro (tutto il teatro, perché il teatro va amato tutto) con la propria carne, con tutta la propria umanità.



Ma è proprio su queste considerazioni che vorrei introdurre un momento, un momento eccezionale della sua carriera, che fu anche un momento eccezionale nella mia formazione e in quella di alcuni miei grandi amici. 

Era il 1984 quando, un anno dopo la fondazione del Teatro de “Gli Incamminati” (di cui oggi io sono direttore artistico), Giovanni Testori, dopo aver modificato un proprio testo della fine degli anni Sessanta, Erodiade, affidò proprio ad Adriana il compito di far vivere le proprie parole. 

Erodiade era tagliata perfettamente su di lei. La figura dell’adultera madre di Salomè e istigatrice della decapitazione di Giovanni il Battista, ma unita a questi da un inspiegabile quanto invincibile amore, e quindi nemica e rivale giurata nientemeno che di Dio stesso, riuniva in un colpo solo tutte le innamorate trepide, tutte le amanti appassionate, tutte le dark ladies della Storia del Teatro. 



Nella sua Erodiade fu come se precipitasse furiosamente tutto il mistero della Donna, come lo indagarono poeti e drammaturghi, romanzieri e guitti. 

Più volte Adriana mi confessò che nessuna esperienza teatrale della sua lunga vita  si poteva paragonare a quell’evento, che non può non permanere nella memoria di chi ebbe la fortuna di assistervi. 

Ma quell’Erodiade benedetta, che si arrende a Dio nel momento della sfida più spudorata, segna una data fondamentale per altre esistenze. A cominciare dal mio grande amico Emanuele Banterle, allora aiuto regista di Testori, che con genialità e metodo, e sottoponendosi a una fatica non comune, ritagliò come un sarto il capolavoro di Testori sul corpo, sulla voce e sul temperamento della grande attrice: un lavoro (certo non comune per un ragazzo di 28 anni) che temprò Emanuele, la sua intelligenza teatrale.

Ma Erodiade fu un momento di scuola per tutti noi: lo fu per Riccardo Bonacina, lo fu per Giuseppe Frangi, lo fu per tutti gli Incamminati, lo fu per me che scrivo. Con la sua forza, senza mai cercare di renderci uguali a lui, Giovanni Testori ci trascinava nel mistero della carne crocefissa e redenta, nel quale risiede la vera natura del Teatro.

Oggi Testori non c’è più, non c’è più Emanuele, non c’è più Adriana. Quell’evento, dal quale imparai che non c’è cultura senza dono di sé, e che mi formò per sempre nella coscienza del mio compito e, insieme, della mia fragilità, sembrerebbe bruciato, ridotto a cenere. Oggi siamo tutti più vecchi, più saggi, qualche volta più furbi. Sappiamo meglio come va il mondo. 

Eppure, da allora e per sempre, qualunque cosa la vita ci abbia condotto a fare, il compito rimane: non toglierci mai di dosso l’impronta che ci segnò in quegli anni lontani, la scuola alla quale cominciammo a crescere, e di cui l’Erodiade di Adriana costituì una delle lezioni centrali.