Al termine delle celebrazioni per il cinquecentenario della nascita di san Filippo Neri (1515-1595) che è stato uno dei protagonisti della grande fioritura del cattolicesimo nella Roma controriformista del secondo Cinquecento, il dossier a lui dedicato dall’ultimo numero della rivista LineaTempo riapre il dibattito culturale sul senso della “riforma” dell’esperienza religiosa di san Filippo nella storia della Chiesa e della società europea del suo tempo e sulla lezione che possiamo trarne oggi.
Anche allora, agli inizi del Cinquecento, la crisi in cui si dibattevano la Chiesa e il mondo europeo era radicale, segnata da una parte dall’accumulo degli abusi e del “vuoto educativo” cristiano e dall’altra dalla scoperta del Nuovo mondo con tutte le nuove problematiche economiche, culturali e di politica internazionale che ne derivavano, per non parlare poi dei nuovi fermenti sociali e della nuova mentalità umanistica ed imprenditoriale che stavano cambiando il volto dell’Europa cristiana.
In molti l’immagine della Chiesa era caratterizzata dalla convinzione di una progressiva, ma inesorabile, decadenza, e la soluzione adottata da Lutero per sciogliere la sua crisi religiosa completa questa prospettiva, indicando come unica possibilità di “rinascita religiosa” il ritorno all’evangelismo abbandonando la Chiesa, la cui progressiva degenerazione aveva trasformato ai suoi occhi il cattolicesimo nell’incarnazione dell’Anticristo.
Spesso questa lettura “catastrofista” della storia del periodo si è imposta anche nel modo di leggere la “rinascita” cattolica del Cinquecento, al punto che gli esiti riformatori maturati in risposta alla presa di coscienza dei limiti vistosi del cristianesimo ereditato dalla tradizione, sono stati letti con i caratteri di una reazione aggressiva, scaturita dalla necessità di ristabilire un ordine violato (Controriforma invece che più correttamente Riforma cattolica).
Rileggere l’esperienza di san Filippo ci aiuta a superare questa schematizzazione non realistica ed ormai storiograficamente superata (vedi il saggio di D. Zardin nel dossier citato).
La reazione dottrinale ed etica di fronte alle nuove fratture della cristianità non poteva generare, da sola, l’autoriforma. Perché questa maturasse, occorreva una nuova energia di proposta, in grado di rispondere con i fatti a un bisogno condiviso. E ciò accadde per quella che possiamo chiamare la forza dei carismi religiosi.
Il rinnovamento della Riforma cattolica si riconosce nelle diverse figure di leaders capaci di guidare e di indirizzare altri sulle vie della fede e della vita cristiana, proponendosi nelle vesti di modelli con cui immedesimarsi: dai cappuccini a sant’Ignazio di Loyola, dai barnabiti a san Filippo Neri.
Ritornando a san Filippo è da osservare che, dopo una giovinezza influenzata dal “riformismo” savonaroliano e da un’impostazione filosofica tomista, quando la traiettoria della sua vita sembrava destinata a culminare con l’avvio di una professione intellettuale, nel 1537, lascia bruscamente gli studi di filosofia e teologia.
Venduto quanto aveva di più caro, ovvero i propri libri, il Neri si dette a un decennio abbondante di romitaggio urbano dal quale, infine, emerse come un “uomo nuovo”: quello che, nel 1551, trentaseienne, prese gli ordini sacerdotali, e fondò l’Oratorio.
La svolta decisiva di Filippo (ben indagata nel saggio di G. Cassiani) consiste nell’impegno a dedicarsi integralmente alla “filosofia cristiana” ovvero al cristianesimo proposto e recepito come “un modo di vivere”. In questa pratica dell'”arte della vita secondo il Vangelo” per Filippo decisivo è il riferimento ai Padri bizantini e alla necessità di individuare, come fece “l’arte della vita antica”, un luogo di esercitazione, un gymnasium: da qui scaturisce l’originalità dell’Oratorio.
La caratteristica dell’Oratorio poi era di abbracciare in prospettiva cristiana ogni dimensione della realtà.
All’inizio gli incontri degli Oratori (subito caratterizzati da una grande libertà di parola) erano costituiti da una lettura in lingua volgare, da un’omelia informale, dall’orazione vocale, di solito in canto, e infine dall’orazione mentale, a cui potevano seguire varie attività, fino alle passeggiate spirituali in una compagnia riposante e ordinata, secondo l’uso dei primi cristiani. Ai salmi verranno poi sostituiti canti in lingua volgare, arricchiti da una facile polifonia, adatti all’esecuzione corale, fedeli allo spirito se non alla lettera della Scrittura, il cui compito era di esprimere l’armonia e la concordia della comunità.
Così san Filippo Neri riprende e sviluppa la tradizione trecentesca delle laudi e recupera il senso della musica (che aveva un grande successo sia nella Roma popolare che in quella nobiliare) come “pescatrice di anime” in quanto, muovendo gli affetti, più facilmente apre il cuore alla conversione. Nascono allora laudi non più monodiche, come quelle medievali, ma costruite su una semplice polifonia e su testi in cui il volgare del Cinquecento ammorbidisce la lingua più rude dei secoli precedenti (vedi il contributo di L. Cioni), mostrando come la novità culturale possa scaturire dalla ripresa della tradizione e non solo dalla dialettica con essa.
L’idea dell’Oratorio è quella di una “palestra di vita spirituale” aperta all’intera città, in vista del superamento della frattura tra il mondo clericale e regolare, da una parte, e quello dei semplici fedeli, nella convinzione che occorra un luogo aperto a tutti, perché la via della perfezione è per tutti, dove la testimonianza e la pratica si connettono strettamente con la cultura, perché la filosofia cristiana da lui praticata ha lo stesso motto della posizione di Seneca: “La filosofia insegna a fare, non a dire”.
“Dir si poteva” quindi che Filippo Neri fosse un autentico “Socrate cristiano”, un uomo di fede e cultura, perché egli aveva “rispetto del volersi sempre occultare, e darsi a conoscere, non quale egli era in effetto, ma più tosto quale esso non era”. Chi scrive così è Federico Borromeo, un altro suo illustre discepolo, che evidenzia come il coinvolgimento personale e il dialogo fossero per lui uno strumento fondamentale della testimonianza (oltre all’ironia e al senso dell’allegria per cui è famoso ancor oggi come “il santo della gioia”).
Nel Cinquecento dilaniato da una feroce contrapposizione religiosa e in un contesto europeo in cui una società malata stava sconvolgendo le strutture sociali dell’ordine tradizionale la figura di san Filippo mostra l’efficacia di una modalità di presenza e rinnovata testimonianza di un’esperienza integralmente cattolica che apre uno spazio d’incontro tra logiche diverse, che devono intrecciarsi per contribuire insieme a rimodellare una buona società umana e cristiana.
Ma la lezione di Filippo non si limita al Cinquecento; lui che non ebbe mai il proposito di fondare una nuova Congregazione (eretta, nel 1575, su precisa istanza del pontefice) si ritrova ad essere il padre fondatore di una Congregazione che avrà molti sviluppi originali nei secoli seguenti fino ad oggi.
Uno dei più rilevanti è quello legato alla figura del beato John Henry Newman (tratteggiato nel saggio di S. Busetto).
Il convertito Newman si ritrova a vivere da cattolico nell’Inghilterra dell’Ottocento, dove la Chiesa non ha ancora potuto fondare una diocesi e una gerarchia specifica. Si ritrova ad essere perciò parte di una Chiesa che concepisce il suo Paese come terra di missione e si sorprende della provvidenziale corrispondenza del carisma filippino per vivere in profondità l’impeto missionario adeguato ad un contesto socio-culturale che sta allontanandosi dalla sua antica ossatura di civiltà cristiana (secondo il modello anglicano).
L’esempio di san Filippo aiuta Newman ad essere insieme fedele e creativo di fronte all’esigenza di testimoniare la ragionevolezza della fede cristiana cattolica nell’Inghilterra vittoriana, senza temere il confronto con la cultura liberale, ma anzi calandosi dentro le esigenze originali di tale cultura per illuminarle dal di dentro con la luce nuova della ragione illuminata dalla fede.
Anche l’impegno alla costruzione di piccole comunità tenute insieme dall’attaccamento reciproco offre a Newman l’alveo di una forma di vita adeguata a testimoniare la fede cattolica tra gli uomini contemporanei, soggetti alla mentalità relativistica “liberale”.
Da qui, ci pare, si trova una possibile indicazione di metodo per una rinnovata testimonianza viva che scaturisce dal fascino della bellezza del cristianesimo da sperimentare nel contesto contemporaneo europeo soggetto alla mentalità nichilistica totalmente secolare.