Nel 1925, Stefan Zweig, nella Lotta col demone (un saggio su Hölderlin, Kleist e Nietzsche), ipotizzava che Friedrich Nietzsche, nei suoi frequenti spostamenti verso l’Europa del sud, cercasse, nella luminosità del Mediterraneo, la risposta a una domanda di significato che il solo sforzo della ragione aveva lasciato inevasa. Nello stesso anno, Joseph Roth tornava nella sua Austria dalle “città bianche” della Provenza, portando con sé l’idea che ciò che di più prezioso una patria può donare fosse la nostalgia.



Era stato dunque proprio il Mediterraneo a far scoprire a Roth non solo la nostalgia, ma anche e soprattutto il fatto che essa, essendo appunto ciò che di meglio ogni patria può donare, fosse probabilmente un metodo per vivere ovunque. Anche in Austria o in quelle altre città europee da dove egli, tra il 1833 e il 1838, mandava lettere all’amico viennese Zweig (recentemente pubblicate da Castelvecchi), nelle quali prendeva le distanze dalla sua rassegnazione di fronte all’avanzata del nazismo: Josef Roth e Stefan Zweig, L’amicizia è la vera patria, Castelvecchi, Roma 2015.



Secondo Roth, la causa principale della disperazione socio-politica di Zweig era il fatto che egli credeva nell’umanità e non “completamente e fermamente in Dio”. La nostalgia rothiana era quindi un metodo, proprio nella misura in cui consisteva in una sorta di ricordo di Dio, che, secondo Roth, rappresentava l’unica via attraverso la quale Zweig si sarebbe potuto salvare dalla disillusione cinica che lo contraddistingueva (“solo Dio può aiutarla”).

Zweig riteneva tuttavia più saggio non affidarsi a Dio, ma accusare Roth di cedere, nella sua opposizione al nazismo, a una violenza intellettuale che lo avrebbe portato a compiere lo stesso errore a cui voleva opporsi. Il motivo per cui, invece, Roth credeva nell’opportunità di combattere, anche a fronte di scarse garanzie di vittoria, era probabilmente da ricondurre al fatto che egli, a differenza di Zweig, era “vicino al diventare un cattolico ortodosso, forse perfino militante” e cominciava quindi a credere in Dio nella forma di un’amicizia (alternativa all’umanitarismo astratto e impotente) che poteva essere “la vera patria”. La sua arma continuava certamente a restare una “spada della ragione” che lo portava anche ad auspicare un “impero cattolico di impronta tedesca e romana” che si sarebbe potuto realizzare attraverso il ritorno degli Asburgo; ma l’amicizia della quale parlava come soluzione anche politica, essendo alternativa all’umanitarismo, portava dentro di sé un punto di fuga verso la Rivelazione. 



Perché, se è vero che si è cristiani soltanto se si crede che, per avere fede in Cristo, la ragione naturale è solo una condizione necessaria e che dunque la condizione sufficiente consiste nell’incontrarlo e seguirlo nel mistero della Chiesa, è forse anche altrettanto vero che la ragione di Roth, rispetto a quella di Zweig, era più aperta all’incontro: l’amicizia di Roth “superava” infatti l’umanitarismo di Zweig nello stesso modo in cui il Lebezjàtnikov di Delitto e castigo, che “arrivava di corsa” a soccorrere la madre di Sonja in preda alla disperazione per le strade di Pietroburgo, può essere la risposta alla ricerca romantica della verità attraverso il solo sforzo della ragione presente nel preludio del Lohengrin di Wagner. 

L’accostamento del tema del divino in Dostoevskij ci conduce, però, a parlare di misericordia: innanzitutto perché consente di capire in che senso quest’ultima si accompagna più alla ragione “cattolica” (alla Roth) e meno a quella “romantica” (alla Zweig). Ciò infatti da cui la misericordia non può mai essere separata è il senso del peccato, vale a dire un tipo di autocoscienza che manca del tutto alla ragione romantica e la radice cristiana della quale Dostoevskij descriveva, nei Demoni, attraverso le parole dell’ateo Kirillov, nei termini di un “dolore della paura della morte”.

Kirillov aveva capito che il suo tentativo di dimostrare la non esistenza di Dio non sarebbe riuscito se egli non avesse saputo sconfiggere il dolore per la paura della morte: proprio nel dolore per quella paura passa infatti la misericordia di Dio, sotto forma delle lacrime che l’uomo prova di fronte alla non accettazione (la paura) del limite invalicabile (la morte) che lo costituisce.

Siamo ai vertici, oggi forse non ripetibili, della letteratura e della riflessione non solo cristiana di tutti i tempi, preceduti sicuramente dal “lagrimar” di Dante di fronte a Virgilio nel primo canto dell’Inferno e dall’appello lanciato nel 1848 da John Henry Newman, in Loss and Gain, a non lasciar morire il cristianesimo, perché, senza di esso, l’uomo non avrebbe saputo dove andare, non avrebbe cioè più saputo conoscersi come bisognoso di salvezza.

La negazione del fatto che l’uomo, se vuole conoscersi, deve, in qualche modo, dispiacersi di negare il proprio limite (il proprio dover morire) porta all’affermazione di una sorta di auto-divinizzazione dell’uomo, con la quale il limite viene eliminato con mezzi umani: nel romanzo di Dostoevskij, è il suicidio di Kirillov e, nell’ateismo contemporaneo, il tentativo di rendere immortale l’uomo attraverso lo stravolgimento tecnologico della sua natura (Marx, Nietzsche, Sartre, Deleuze).

Ma il sentiero per risalire alla sorgenti della propria consapevolezza di essere qualcuno il cui limite non può essere umanamente redento resterà ancora aperto anche per l’uomo di oggi, in coloro i quali oltrepasseranno i propri peccati non per sostituirsi a Dio, ma per tornare a Lui e per affermare, con le parole di Stepan Trofimovic nei Demoni: “Non riconosco più nulla… Ma i nostri tempi torneranno e ricondurranno sulla via sicura tutta questa roba vacillante, roba di oggigiorno. Altrimenti che sarà mai?”.