È diventata quasi un ossessione seguire i titoli del New York Times, insieme a quelli del New Yorker, del Washington Post, ecc. per cercare di chiarire non solo questo momento delle candidature presidenziali che credo sia storico negli States, ma anche per cercare di percepire, o meglio, sentire il polso del popolo americano, il quale mi appare in crisi. Crisi non è una parola da loro amata, viene considerata troppo drammatica. Ma non credo che ci sia nessuno in questo momento che non neghi la serietà della divisione anche potenzialmente violenta che esiste da quando personaggi di carattere spiccato come Bernie Sanders e Donald Trump hanno rubato la scena, facendo irruzione e riuscendo ad eliminare un Bush e a contenere una Clinton. C’è chi mi scrive dicendo che si vergogna di dire di essere americana quando va all’estero, non per le violenze varie ma piuttosto per le azioni e i contenuti sia di Bernie che di Donald. Non è solo la grossolanità e crudezza di Donald ma anche la sfida socialistica e focosa di Bernie che sono insolite e allarmanti per tanti. Vergognarsi di essere americano è una straordinaria novità in un paese che si è fortemente sentito sopra a tutti gli altri e migliore almeno per un buon mezzo secolo, cioè da dopo la fine della seconda guerra mondiale.



Ritagliare spazi che distraggano da tale ossessiva attenzione (e quale successo mediatico si sta verificando per queste elezioni in tutto il mondo) non è facile. Ma per fortuna ci sono, ed è l’arte la forza salvifica, in qualunque sua forma, spesso. Recentemente mi è capitato di ascoltare una serie di musiche di Beethoven ogni sera per una settimana, seguita da un pomeriggio di Scarlatti al clavicembalo. Si sono inserite anche due mostre importanti a Bologna: Street Art a Palazzo Pepoli prima e poi Edward Hopper a Palazzo Fava. Queste hanno segnato per me un momento estatico, nel senso vero di riuscire a sentirsi di uscire dal tempo e da se stessi. 



Tuttavia se qualcuno mi chiedesse quale sia stato, in questa maratona artistica, l’evento che più mi ha fatto pensare, che più mi ha incalzata per approfondire la comprensione dell’esperienza,  dovrei dire sicuramente Hopper… ma perché? Non perché ascoltare le stupende sinfonie di Beethoven con un grande finale corale della Nona, e con ospiti speciali come il Coro del Teatro Comunale di Bologna in una modesta chiesa (modesta per questa città di spettacolari chiese e palazzi) all’Oratorio di Santa Cecilia, non sia stato struggente e persino commovente. Così come non è stato di meno ascoltare i fratelli Scarlatti per le loro composizioni barocche nella preziosa Chiesa di San Colombano, la quale ospita la Collezione Tagliavini di strumenti antichi (con il maestro presente).  



Persino la contestatissima mostra dei “Writers” in una serata inaugurale strepitosa per l’allestimento, la musica e la presenza di vari artisti con i quali poter parlare della loro accettata convivenza fra Street e musei, e con fuori un non piccolo esercito di uomini in blu armati e preparati a proteggerci, persino questa stimolante e particolare serata artistica non ha lasciato il segno di quella di Hopper.

Il perché dev’essere cercato in quella irrefrenabile attenzione per il “teatro” americano, attenzione che adesso si è creata per questo suo procedere verso l’elezione dell’uomo più potente del mondo. Hopper mi ha fatto vedere tutta la contraddizione e il conflitto tra il paesaggio con le sue luci e i colori apparentemente luminosi ma offuscati e le sue rare figure umane, quasi caricature, che appaiono qua e là come oggetti dispersi. Hopper mi ha fatto vivere la freddezza e la solitudine racchiuse in una natura desolantemente bella e vuota. Una natura lontana, buia e senza vita nella quale sorgono case o villette, strade o locali che a prima vista attirano e sembrano radianti per i vivaci colori, ma che avvicinandosi si rivelano come manifestazione di una crudeltà implicita. 

Non esplicita: ed ecco l’America del Nord con i suoi sterminati spazi e la sua potenziale grandezza ma con un’anima anche feroce nella sua determinazione, e violenta nella sua espressione. Con una storia oscura di conquiste, massacri, guerre, e schiavitù in cui si formava una coscienza collettiva che Hopper coglie e raccoglie in quello spietato silenzio che riempie i suoi quadri. Non c’è nulla di benefico, rasserenante o rassicurante nei suoi dipinti dove le dimore sembrano abitate da fantasmi o fantasmagorici individui senza carne, cuore o anima.

Questa è l’America del Nord come si vive in questi mesi con il degrado irruente dei primi protagonisti di queste elezioni e quello conseguente dei suoi attori minori, Cruz e Rubio: Jed Bush apparteneva forse ancora ai vecchi standard dei politici più raffinati? È stata quella la sua caduta, non riconoscere, non voler accettare l’aggressività che cresceva nel paese e che si cercava nei suoi candidati? Questo paese armato quanto poteva rimanere quieto e silente? In queste ore arrivano notizie che anche la Clinton nella sua lotta contro Sanders, che si è dimostrato impressionante, rompe le barriere del decoro che si era in ogni caso andato sgretolando già in precedenti elezioni. Trump si era subito fatto leader di questa campagna auto-distruttiva per i tradizionali e logorati partiti — già democratico e repubblicano avevano preso una strada senza ritorno; era finita e si era sfinita l’era in cui la differenza era notevole e significativa (seppur fosse sempre rimasta troppo ristretta la scelta di solo due partiti, due discorsi, due scelte: ci voleva altro). Ma questo altro è una meta forse ancora irraggiungibile. 

In un paese esasperato per le uccisioni in massa che sono diventate l’atroce normalità, dove le frontiere sono attaccate da cielo e terra, e dove gli individui si muovono come le figure disperse e perse nei quadri di Hopper in cerca di una verità nascosta che ora affiora in un linguaggio selvaggio e anche dispotico fra gli avversari politici e chi li ascolta e manda avanti, l’altro che potrebbe essere un’alternativa non è presente. Ciò che ascoltiamo e leggiamo è quel vuoto che si scorge non solo nei dipinti ma anche nei disegni a matita di Hopper, così come sono raccolti nella mostra a Bologna in questi giorni. Guardare l’opera di Hopper è gettare uno sguardo dentro l’anima americana.