Siate pazienti sino alla fine. Romani, compatrioti, e amici! uditemi per la mia causa; e fate silenzio per poter udire: credetemi per il mio onore; ed abbiate rispetto pel mio onore affinché possiate credere: giudicatemi nella vostra saggezza, ed acuite il vostro ingegno affinché meglio possiate giudicare. Se vi è alcuno qui in questa assemblea, alcun caro amico di Cesare, a lui io dico che l’amore di Bruto per Cesare non era minore al suo. Se poi quell’amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare, questa è la mia risposta: non che io amavo Cesare meno, ma che amavo Roma di più. Preferireste che Cesare fosse vivo, e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io l’onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l’ho ucciso: vi sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione. Chi v’è qui sì abietto che sarebbe pronto ad essere schiavo? Se vi è, che parli; perché lui io ho offeso. Chi vi è qui sì barbaro che non vorrebbe essere romano? Se vi è, che parli; perché lui ho offeso. Chi vi è qui sì vile che non ami la sua patria? Se vi è, che parli; perché lui ho offeso. Aspetto una risposta.
E’ il celebre discorso che Shakespeare fa pronunciare a Bruto subito dopo la congiura che portò all’uccisione di Cesare. La tragedia sulla vita e la morte del grande generale romano, scritta e rappresentata nel 1599, da sempre uno dei testi teatrali più noti, basata su Plutarco, apre la fase shakespeariana del capovolgimento dei valori costituiti. Essa riverbera la crisi generale dell’universo e dell’uomo che la cultura occidentale aveva ereditato dal mondo classico, mantenendola in vita fino a tutto il Rinascimento: crisi della res publica, fine di Cesare, ma anche tragedia di Bruto e dell’idea stessa di libertà.
Il genio di Shakespeare si volge alla storia romana per illuminare i suoi tempi, fedele in questo all’interesse degli inglesi per quell’origine comune derivante dal ceppo troiano che li legava alla città eterna. Da lì essi traevano esempi di virtù civile, ma anche dubbi e domande su virtù pubblica e privata, su eroismo stoico e cinismo politico. L’uccisione del tiranno è il vero tema della tragedia, in una visione moderna di tre grandi figure politiche, Cesare, Bruto e Antonio, rappresentate nell’intreccio dei loro destini e nel segreto della loro vita interiore.
Poco dopo Bruto, parla Antonio, con un discorso in cui sobilla la plebe romana contro i congiurati, proprio mentre afferma di non volerlo fare. Le due orazioni esprimono le motivazioni degli oppositori e dei fedeli a Cesare, attraverso la tecnica di una visione non univoca della realtà, resa attraverso una retorica che si fa strumento di verità, ma anche di cattura emotiva delle coscienze.
Amici, Romani, compatrioti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Bruto e degli altri (poiché Bruto è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore) io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cesare? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure Bruto dice che egli fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re che egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice che egli fu ambizioso; e, invero, Bruto è uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, non senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere sinché non ritorni a me. Pur ieri la parola di Cesare avrebbe potuto opporsi al mondo intero: ora egli giace là, e non v’è alcuno, per quanto basso, che gli renda onore. O signori, se io fossi disposto ad eccitarvi il cuore e la mente alla ribellione ed al furore, farei un torto a Bruto e un torto a Cassio, i quali, lo sapete tutti, sono uomini d’onore: e non voglio far loro torto: preferisco piuttosto far torto al defunto, far torto a me stesso e a voi, che far torto a sì onorata gente. Ma qui c’è una pergamena col sigillo di Cesare che ho trovata nel suo studio; è il suo testamento: che i popolani odano soltanto questo testamento, che, perdonatemi, io non intendo di leggere, e andrebbero a baciar le ferite del morto Cesare, ed immergerebbero i loro lini nel sacro sangue di lui; anzi, chiederebbero un capello per ricordo, e morendo, ne farebbero menzione nel loro testamento, lasciandolo, ricco legato, alla prole.
Con il compianto sul corpo di Cesare e la lettura del testamento in cui egli lasciava il suo patrimonio al popolo romano si conclude il discorso di Antonio.
Due verità, opposte, a cui la scaltra parola dà voce. Quale contraddizione, ma anche quale indice di grande civiltà. Non perché la verità vera sia indifferente, ma perché i fatti sono complessi, affondano negli abissi delle intenzioni ed esse non sono mai pure, nascondono un segreto tornaconto. L’arte cerca di scandagliare l’ambiguità che si cela al fondo dell’uomo, la rappresenta e in questo modo contribuisce alla conoscenza, ma anche all’inquietudine della coscienza, senza le quali la percezione dei fatti, anche di quelli che ci toccano oggi, resterebbe più approssimativa e superficiale.