Magistrale la lettura che Mauro Grimoldi, docente di italiano nel Liceo classico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e collaboratore di Avvenire, ha dato dei numerosi testi di Charles Péguy commentati nella sua recente serata al Centro culturale francescano Rosetum di Milano. Scusandosi umilmente — in un teatro gremito — con i suoi interlocutori, il pubblico e il Padre eterno, per le parole che avrebbe proferito su uno dei più grandi geni del nostro tempo, Grimoldi ha presentato la sua interpretazione attorno al significato della figura del padre.



È difficile — ha iniziato Grimoldi — situare il pensiero di Péguy sulla paternità senza considerare quella che lui definisce la “sterilità moderna”. 

Siamo già postumi. / Gli ultimi testimoni. / Siamo gli ultimi. Quasi i postultimi. Subito dopo di noi comincia un’altra età, un altro mondo, il mondo di coloro che non credono più a niente. / Subito dopo di noi comincia il mondo che noi abbiamo chiamato e continueremo a chiamare il mondo moderno. (C. Péguy, La nostra giovinezza, 1910)



Moderno qui — osserva Grimoldi — ha a che fare con moda; più che il progredire verso la perfezione, si tratta di un mondo che avanza all’indietro, progressivamente, come scrisse Eliot: “Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dèi, dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima”. Questa è la descrizione della società nella quale oggi ci troviamo a vivere, in cui Dio è messo al bando, fuori gioco. Ma qual è la connessione con la paternità? Continua nella lettura Grimoldi: “La medesima sterilità inaridisce la città e la cristianità. La città degli uomini e la città di Dio. / È questa la sterilità moderna. / È infatti la prima volta nella storia del mondo che un mondo intero vive e prospera, sembra prosperare contro ogni cultura.



Una società senza cultura è pertanto una società che non può portare frutto, sterile, infeconda. Chi prospera? Risponde Péguy. 

Prosperavano gli intellettuali celibi, i sociologi, con il loro maestro mai citato Emile Durkeim, in compagnia di cartesiani, kantiani, bergsoniani, neo kantiani e affini / tutti celibi come i loro maestri, che erano essi stessi celibi come il loro maestro, e che non si permettono che qualche raro nipote. / Sterili, infecondi, infantili. / Tutto il contrario del padre. / Uomini singolari; lavoravano molto; tanto e più, o meno, di tutti gli altri, a seconda di come si vuole intendere; ma essi non lavoravano per l’opera e per la fecondità, per il libro e per il pane, come madre natura e come tutti gli uomini naturali; come la buona e cattiva madre natura, come i buoni e cattivi uomini naturali; essi non lavoravano per il risultato del lavoro, / per l’opera, diremmo / per fare ciò che si fa, come noi altri poveri artigiani; essi lavoravano per l’esercizio e la virtù del lavoro stesso, per il merito e per il dovere; essi non pensavano che alla virtù / loro / al merito / loro / e al valor proprio / amor proprio. / Sterili, infecondi, celibi. / Senza cultura, essendo la cultura concezione: incontro, affetto, fecondazione, ospitalità, gestazione, e parto, nascita, inizio. / Opera e presenza. / Amorosa esperienza, che attrae nel proprio vertice ogni fatto, interesse, realtà. (Lo spirito di sistema, 1905, ma pubblicato postumo)

La cultura è una amorosa esperienza. Esige una presenza. Oggi si fa di rado cultura poiché si è disabituati, o meglio, non educati, a stare dinnanzi alla realtà, spogli, completamente nudi, all’ascolto. Si vive così la generosa tendenza a vivere una realtà costruita, immaginata, una realtà che non è realtà. Si cambiano i nomi degli oggetti della realtà: tali oggetti cessano d’un tratto di essere “riferimento”. Subentra la confusione del linguaggio e con essa la confusione del proprio essere, della propria identità. Poiché quando un nome perde di significato, la realtà diviene illeggibile, incomunicabile. Appunto, la sterilità moderna. 

Ricorda però Grimoldi che esiste un punto in cui accade una corrispondenza tra il nome e il suo oggetto, una esperienza, quella del grande amore in cui tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. Diventa avvenimento, cioè ciò che accade nella realtà diventa leggibile e pertanto comunicabile. Tanto è vero che caratteristica di un grande amore è di essere annunciato, detto, come la sorpresa di Maria Maddalena nello scoprire quella tomba vuota e nel riconoscere, attraverso il pronunciamento del suo nome, il Signore risorto (Gv 20,16). Senza tale voce, tale corrispondenza, domina l’infelicità. Una infelicità però colta, forbita, ben nutrita, e pertanto pericolosa. Ancora Péguy: 

Questi infelici ignoravano la gioia, la semplice gioia del cuore e il godimento delle mani, tutta la felicità, tutto ciò che fa la felicità e la gioia del buon operaio, dei semplici operai; mangiare una buona minestra fumante sotto il chiarore della lampada di casa, seduti al tavolo comune rotondo leggermente ovale, di fronte alla propria donna semplice e piena di umanità, / tra gli spintoni dei figli magnifici: ecco ciò che essi non conobbero mai, celibi come i loro maestri, che erano essi stessi celibi come il loro maestro. 

Diverso però è il grande avventuriero, il padre di famiglia. Egli si è carnalmente implicato nella vita di altri, non ci si può concepire sconnessi a quella realtà, a cui si è dato la vita e a cui si cede la vita. 

E qui Grimoldi ha ripercorso l’ultima pagina del Veronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, incompiuta, 1909, in parte riportata.

Quindi, una volta effettuata l’entrata maxima, una volta al mondo, continuò a muoversi verso il mondo e verso il secolo. Prima visse per trenta anni la vita di famiglia, cioè la vita più coinvolta nel mondo che al mondo ci sia; perché il più grande errore, l’errore più stupido e grossolano è di credere, è immaginarsi che la vita di famiglia, siccome è una vita ritirata, sia anche una vita ritirata dal mondo. È esattamente e diametralmente il contrario. La vita di famiglia è invece la vita più coinvolta nel mondo, incomparabilmente, che al mondo ci sia. C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun pericolo, al suo confronto. Tutto nel mondo moderno, e soprattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario. [….] 

Il più coinvolto di tutti / Più del vir politicus, del politico, del demagogo, del tribuno, dell’oratore, del legislatore, dell’eloquente, del militare, del giudice, del generale, del presidente di corte, del presidente di camera, del signor sindaco, del clericus / Poiché l’uomo di famiglia, il padre di famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura / Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo avverte che è lui, il padre, il nemico, il più lontano, il più straniero. / Il più secolare, il più irregolare di ogni altro uomo del secolo, forse il più irregolare. / Il più secolare poiché sa bene che l’amore non è una parola nel vento / un sentimento sospeso / fluttuante / ondi vagante / che possa evitare gli spigoli ruvidi delle cose / per una pace / che sia irenismo da celibi / Poiché essi non hanno la forza di appartenere alla natura, credono di appartenere alla grazia. Poiché essi non hanno alcun coraggio temporale di essere nel mondo, credono di essere di Dio. Poiché essi non hanno il coraggio di appartenere a uno dei partiti degli uomini, credono di essere del partito di Dio. Poiché essi non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio. / Il più secolare, il più irregolare / Un povero essere, un essere infermo. / Umile, bisognoso di aiuto, di tutto, bisognoso di Dio, uno che segue, che deve seguire, chiedere, imparare tutto. / Un padre figlio, un padre che ha bisogno di padre; del Padre. Di Dio. / Perché Dio stesso è padre. Più padre di ogni altro padre. Nessuno è padre più di lui. Tam pater nemo. / Questo fondamento stabilisce l’eternità della paternità, la sua invincibilità; nessuno ci toglierà mai la paternità di Dio, continueremo, continuiamo ad essere figli, ad avere un Padre. Lo si può uccidere, processare, condannare, esiliare, incarcerare, incatenare. Ma il padre rimane padre, nel pieno esercizio della sua paternità. / Così la faccenda è grave e seria, proprio in considerazione dell’invincibilità del padre. / Non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio! Disse Gamaliele. Non ci accada di metterci in questa situazione. Contro Dio, contra la ragione, contro la realtà, contro l’umanità, / poiché a immagine di Dio siamo fatti, / contro la meccanica delle cose, contro le cose stesse, l’esistenza stessa delle cose. / Essere di niente è essere niente; pezzenti, buoni a nulla, infelici, vagabondi, erranti

Curiosa a tale proposito la risposta di Jeannette: “A me che non sono di niente. Piano, madama. Si è sempre di qualche parte, si è sempre di qualche cosa e di qualcuno nella cristianità. Non ci sono pezzenti e buoni a nulla nella cristianità. Non ci sono vagabondi, erranti. 

Essere di niente è essere schiavi. Tale è, afferma Grimoldi, la galera del mondo moderno, dove ognuno rema al proprio banco, subendo la sorte comune. E conclude ponendo in evidenza tre punti che emergono dalla riflessione circa la figura del padre in Péguy vale a dire la libertà, la speranza e la giustizia. 

Scrive Péguy nel Mistero degli innocenti (1912): “Come un padre che insegna a nuotare a suo figlio / Nella corrente del fiume / E che è diviso tra due sentimenti / Perché da una parte se lo sostiene sempre e se lo sostiene troppo / Il bambino ci confiderà e non imparerà mai a nuotare. / Ma anche se non lo sostiene bene al momento buono / Quel bambino si troverà a bere… / Così io quando insegno loro a nuotare nelle prove / Anch’io son diviso tra questi due sentimenti. / Perché se li sostengo sempre e li sostengo troppo / Non sapranno mai nuotare da sé. / Ma se non li sostengo bene al momento giusto / Quei ragazzi potrebbero forse bere. / Questa è la difficoltà, ed è grande

Che cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera? Una salvezza che non venisse da un uomo libero non sarebbe nulla. Può forse piacere essere amati da degli schiavi? La libertà di Dio è la libertà dell’uomo, affermava Luigi Giussani, ed è questo che si ritrova nel passaggio di Péguy richiamato. Paradossalmente la battaglia che la società contemporanea conduce per censurare Dio con il fine di fare posto all'”io” non è che è un controsenso poiché tale “io” trova la sua perfetta collocazione in “Dio”. 

Di tale rapporto è espressione la speranza di cui si legge ne Il portico del mistero della seconda virtù: “Perché è un mistero che segue, è una parola che segue / Nei più grandi / Allontanamenti. / Non c’è bisogno di occuparsi di lei, e di portarla. È lei. / Che si occupa di voi e di portarsi e di farsi portare. / È lei che segue, è una parola al seguito, è un tesoro che accompagna.

La speranza dunque è una parola che è racchiusa nella ricerca dell’uomo, non lo abbandona mai, un po’ come a dire che fa parte della sua natura. La speranza è il tesoro di cui si dovrebbe essere gelosi poiché dichiara la promessa di compimento della vita. Grimoldi accanto alla libertà e alla speranza pone la giustizia, nel suo paradosso presentata sempre ne Il portico del mistero della seconda virtù: “In cosa uno può valere novantanove? / Non sia tutti figli di Dio. Ugualmente allo stesso modo? / In cosa, come, perché una pecora vale novantanove pecore. / E soprattutto perché è giustamente quella che s’è smarrita, che era perita, che vale giustamente le novantanove altre, le novantanove che non s’erano smarrite. / È un po’ forte però, quando ci si pensa. / Cos’è questo imbroglio. / È giustamente quest’anima che era perduta, che era perita, che vale altrettanto, che suscita tanta gioia nel cielo quanto quelle novantanove altre. / Quanto quelle novantanove che non s’erano smarrite. / Mai. / Che non s’erano perdute, che non erano perite. / Mai. / Che erano rimaste salde. / È ingiusto. Cos’è questa invenzione, questa nuova invenzione? / È ingiusto. Ecco un’anima, (ed è giustamente quella che s’era perduta), che vale tanto, che conta tanto, che rallegra tanto quanto quelle novantanove disgraziate che erano rimaste costanti. / Perché; in cosa; come? Ecco uno che pesa nella bilancia di Dio quanto novantanove. / Che pesa altrettanto? Forse che pesa di più. In segreto. Non si sa mai. Ho proprio paura. Segretamente si ha l’impressione che pesi di più, quando si legge questa parabola. / Dunque ecco un peccatore, diciamolo, che pesa almeno quanto novantanove giusti. / Che pesa forse di più. Non si sa mai. Una volta che si entra nell’ingiustizia. / Non si sa più dove si va a finire.

Si tratta di un paradosso, quasi azzardato. Si ha il sospetto infatti che tale pecora che ha sbagliato, che si è macchiata di un peccato valga più di novantanove giustizie sommate. E con che diritto? Accuserebbe immediatamente imperterrito l’uomo occidentale. Con che diritto tale regolazione della bilancia? Il giusto e lo sbagliato paiono non essere più l’ago di questa bilancia. Sfugge il criterio, si resta nell’incomprensione della salvezza. Il problema dell’occidentale è che maschera non solo i nomi della realtà, ma anche la realtà del peccato ponendovi una estrema condanna. 

Ancora ne Il portico del mistero della seconda virtù Péguy invece ricorda una potenza in grado di legare le braccia ed una — forse più forte — capace di slegarle. Quest’ultima è la misericordia: giustizia di speranza. “Tutto era consumato, quest’incredibile avventura. / Per la quale, io, Dio, ho le braccia legate per la mia eternità. / Quest’avventura con la quale mio Figlio mi ha legato le braccia, / per l’eternità legando le braccia della mia giustizia, / per l’eternità slegando le braccia della mia misericordia. / E contro la mia giustizia inventando una giustizia stessa. / Una giustizia d’amore. Una giustizia di speranza